Una nuova “picconata” al Jobs Act

In merito alle tutele per illegittimo licenziamento, le ultime pronunce tendono a ripristinare la vecchia tutela reintegratoria, dando un’ulteriore “picconata” al disegno riformatore della disciplina del lavoro varata dal Governo Renzi

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Sentenza della corte costituzionale sul jobs acta torna alla formula reintegratoria

di Luigi Beccaria |

Con la sentenza n. 128 del 2024, la Corte Costituzionale, notoriamente l’organo di garanzia costituzionale preposto a verificare la conformità delle leggi e degli atti aventi forza di legge, come i Decreti Legge e i Decreti Legislativi, oggi più che mai al centro del dibattito per effetto del trasferimento “de facto” in seno al Governo per la produzione legislativa, ha dato un’ulteriore “picconata” al disegno riformatore della disciplina del lavoro varata a cavallo tra il 2014 e il 2015 dal governo presieduto da Matteo Renzi, noto nel suo complesso come “Jobs Act”.

La tutela reintegratoria

Nello specifico, la sentenza ha affermato l’illegittimità (id est: la non conformità alle previsioni programmatiche costituzionali) dell’art. 3, comma 2, del D.Lgs. 23/2015. Ritenendo che, in caso di insussistenza del fatto materiale posto alla base del recesso, la tutela applicabile debba essere comunque quella reintegratoria e non quella risarcitoria obbligatoria prevista dalla legge scrutinata dalla Corte.

La pronuncia si colloca in una scia ormai consolidata, volta ad abbattere le istanze riformistiche attinenti alle tutele per illegittimo licenziamento per i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015. Essa fa infatti seguito, ex multis, a sentenze (tutte emesse dal Giudice delle Leggi, in varia composizione) come la n. 59/2021 o la 125/2022, sempre in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo e relative tutele applicabili. In sostanza, la progressione di pronunce ha ri-espanso in modo sempre più significativo l’alveo della vecchia tutela reintegratoria. Introdotta, come noto, nel risalente e storico Statuto dei Lavoratori al suo celeberrimo articolo 18, la cui entrata in vigore nello ius positum risale al 1970.

La norma era stata poi modificata, sino al cambio di paradigma voluto dal governo di centro-sinistra a metà dello scorso decennio. Sulla base di alcuni principi che, a parere di chi scrive e per le ragioni che di seguito verranno esposte, risultano più conferenti a disciplinare la materia giuslavoristica nella contemporaneità.

Flexicurity: minori paletti e maggiori certezze

In primis la normativa andava verso il principio di matrice europea di “flexicurity”, secondo cui i datori di lavoro avrebbero avuto minori paletti e maggiori certezze e libertà imprenditoriale nel procedere a licenziamenti (naturalmente osservando il giustificato motivo / giusta causa, presente nell’ordinamento italiano sin dalla legge n. 604/1966). A garanzia del lavoratore, il rafforzamento del sistema di welfare con l’introduzione di un’assicurazione / ammortizzatore sociale contro la disoccupazione involontaria. Non casualmente, proprio nel quadro del Jobs Act nasceva nel nostro ordinamento la Naspi.

Il secondo principio cui era finalizzata la delega era quello di predeterminare sotto il profilo patrimoniale (in funzione dell’anzianità di servizio) le conseguenze derivanti dall’eventuale pronuncia giudiziale di illegittimità del licenziamento. Riducendo la discrezionalità delle pronunce che, in funzione della sensibilità del magistrato, potevano essere connotate da notevole disomogeneità. Pur senza per questo far venir meno una tutela economica (aggiuntiva rispetto alla Naspi) in favore del lavoratore.

Va da sé che tale impalcatura, voluta dal legislatore dell’epoca e mai ritoccata nelle legislature medio tempore succedutesi da vari governi dei più disparati colori politici, è stata totalmente travolta. A ciò fa eccezione l’art. 6 del medesimo D.Lgs. 23/15. In quanto la possibilità conciliativa ivi prevista persegue finalità diverse, consistenti nella deflazione del contenzioso giudiziario e non nella determinazione delle tutele per illegittimo licenziamento.

Un “picconamento” reiterato al Jobs Act

Alcune riflessioni derivanti dalla lettura congiunta delle richiamate pronunce: fermo restando l’essenziale ruolo di garanzia svolto dalla Corte, è evidente che un “picconamento” così reiterato di un disegno riformatore (che cullava peraltro ambizioni “sistematiche”, non spot, al di là della condivisibilità del singolo provvedimento) non può che creare un sistema di entropia.

In quanto si travolgono larghe parti di una legislazione che attiene a un aspetto fondamentale della collettività. Senza che ne sia fatta un’esplicita sostituzione o, ancor peggio, facendo ricorso a norme pensate e applicate svariati decenni fa. E anche passando all’effettivo merito giuridico della questione, chi scrive (sulla base di una pratica quotidiana ed esclusiva in subiecta materia, senza alcun pregiudizio politico e sine ira et studio) ritiene che la normativa di cui all’art. 18, pensata per un contesto sociale, politico ed economico completamente diverso da quello attuale (esattamente come l’art. 4 della medesima legge, preposto a normare i controlli a distanza tramite strumenti tecnologici, venne riformato sempre nel 2015 in quanto manifestamente vetusto) risulti incongrua al mutato contesto attuale.

Ripensare il Jobs Act in un contesto cambiato

È evidente, infatti, che in questi decenni sia il fenomeno del lavoro (traslatosi in larga parte da quello rigidamente categorizzato in modo fordiano – taylorista, con suddivisione tra impiegati e operai, ad una dimensione più “liquida”), sia le dinamiche interne al rapporto di lavoro, sono profondamente mutate.

Fino al punto che, in molti casi, è lo stesso lavoratore, con un rovesciamento copernicano di prospettiva, a “fare i colloqui” ai datori di lavoro. Valutandone l’attrattività in tema di benefit, smart working e altri strumenti di conciliazione tra vita privata e lavorativa. La nozione di “posto fisso” ha perso il rilievo e l’importanza sociale che aveva negli anni Settanta (prova ne siano la diffusione di “Quiet Quitting” e “Grandi Dimissioni”).

Per questo, tenere in uno stato di perenne incertezza nelle more del processo le imprese, per accertare, magari dopo anni e tre gradi di giudizio, la stabilità reale di un posto di lavoro che il lavoratore avrebbe ben potuto cambiare nel corso del tempo, appare un po’ fuori dal tempo. Quantomeno degno di una rimodulazione più graduale e meno tranchant.


* Luigi Beccaria è avvocato e partner di Studio Elit. Collabora con l’Università degli Studi di Milano e con l’Università Cattolica del Sacro Cuore.

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