di Laura Reggiani | La formazione nelle Pmi, si sa, è una leva strategica che realtà italiane devono attivare con maggiore intensità e qualità, se vogliono essere in grado di affrontare le sfide attuali e future.
Almeno il 60% delle Pmi ritiene la formazione prioritaria, sia per la transizione digitale sia per quella green. Ma soprattutto per sviluppare capacità di relazione, di lavoro in gruppo, l’attitudine all’imprenditorialità, la creatività e la capacità innovativa. “Dai risultati della ricerca, condotta su un campione di oltre 500 Pmi italiane, due sono i temi su cui l’ecosistema deve lavorare per aumentare la sensibilità delle imprese. Il primo riguarda la messa a punto di nuovi paradigmi per rendere centrale la formazione nei processi di up-skilling e di re-skilling, per migliorare la competitività delle imprese e per evitare problemi di natura sociale. Il secondo deve avere l’obiettivo di aumentare la formazione dedicata alle figure apicali e ai quadri. Cruciali nel processo di trasmissione degli orientamenti strategici verso l’innovazione. Oggi, la formazione obbedisce più a esigenze legate alla quotidianità, rendendola più simile all’addestramento”.
Così, Claudio Rorato, direttore dell’Osservatorio Innovazione Digitale nelle Pmi, nella presentazione dei risultati del progetto dedicato alla formazione all’interno dell’Osservatorio Innovazione Digitale nelle Pmi del Politecnico di Milano.
Diversi approcci alla formazione nelle Pmi
Metà delle piccole e medie imprese italiane (51%) dichiara che la formazione è parte della propria strategia, mentre per il 31% è ritenuta importante, ma non rientra tra le attività strategiche. Il restante 18% afferma che la formazione non è prioritaria oppure che è usata solo per la parte obbligatoria. La valutazione delle competenze e l’individuazione delle necessità formative a livello previsionale interessano solo il 15% e l’11% delle Pmi.
Dal confronto tra la strategicità attribuita alla formazione nelle Pmi e la valutazione delle competenze presenti e future per definire i piani formativi, nasce il sospetto che esista una differenza tra il pensiero e l’azione, tra la teoria e la pratica. Questo è avvalorato anche dal fatto che il 37% del campione non dispone di una programmazione delle attività formative. E che il 19% le programmi ogni due o tre anni. Per migliorare le competenze interne, il 30% delle Pmi non si avvale di formazione formale (corsi interni o esterni o altre attività strutturate come job rotation, webinar, fiere, eventi).
Le imprese si appoggiano esclusivamente a formazione informale. Favorendo l’affiancamento a figure più esperte e la condivisione di esperienze tra il personale aziendale (14%). Oppure ricorrono solo alla formazione obbligatoria (16%). Il restante 70% utilizza un mix tra formazione formale e informale. Il 40% delle Pmi che ricorre solo alla formazione obbligatoria o informale ritiene problematico svolgere l’attività formativa durante l’orario di lavoro. Mentre il 32% lamenta la mancanza di una struttura interna dedicata alla formazione.
Le attività formative formali
Il 64% delle Pmi che svolge attività formali ritiene che la formazione migliori la competitività dell’impresa o aiuti a trattenere i talenti (42%). Negli ultimi due anni è prevalente la formazione su hard e soft skill (73%, concentrata su capacità relazionale e di gruppo, normative, tecnologie digitali, attività manuali). Seguita da quella dedicata alla digitalizzazione (61%, concentrata sull’addestramento all’uso di tecnologie, conoscenza delle nuove tecnologie, implicazioni normative sull’uso delle tecnologie) e alla transizione green (39%, concentrata sulle pratiche di riciclo/ economia circolare, sensibilizzazione alla sostenibilità, uso di tecnologie per il risparmio energetico).
Gli impiegati e gli operai sono le figure più coinvolte in attività formative (69%). Oltre la metà delle Pmi che svolge attività formative formali non coinvolge dirigenti o quadri (53%). Stupisce questa scarsa attività formativa verso figure cruciali nelle imprese in quanto congiunzione tra leadership strategica e gestione operativa. Alla stessa stregua, anche i neoassunti nel 64% dei casi non usufruiscono di formazione formale, limitando gli interventi soprattutto agli affiancamenti.
I finanziamenti alla formazione
La maggior parte delle Pmi che ha svolto attività formative formali ha fatto ricorso a formazione finanziata (78%), attraverso crediti di imposta (39%), fondi paritetici interprofessionali (33%) e bandi camerali (22%). I tassi di utilizzo inferiori al 50% segnalano che le fonti di finanziamento per la formazione sono ancora poco conosciute e che gli Enti che le promuovono devono migliorare in questa direzione.
La complessità per il monitoraggio e la rendicontazione risultano la principale criticità per l’accesso alla formazione finanziata (27%). Seguite dall’esiguità dei fondi messi a disposizione (23%) e dalla complessità nelle fasi iniziali di preparazione della documentazione e della candidatura (23%). Sono gli impiegati (90%) i principali fruitori della formazione finanziata, seguiti dagli operai (57%), dai quadri (48%), dai neoassunti (33%) e dai dirigenti (24%).
Solo il 17% delle Pmi monitora regolarmente le competenze per valutare l’efficacia della formazione finanziata. Tutto questo, unito alla mancanza di una chiara indicazione sugli impatti della formazione finanziata, denota una consapevolezza sul tema ancora scarsa e una generale difficoltà a considerare la formazione come un elemento strategico.
“La formazione finanziata può essere un volano per lo sviluppo della competitività delle Pmi, perché supporta la crescita della conoscenza a basso costo. Ma necessita di adeguamenti almeno nelle fasi di accesso e di progettazione dei contenuti, per coinvolgere maggiormente le fasce apicali, quelle in ingresso e quelle intermedie che fungono da collegamento tra leadership strategica e gestione operativa”, conclude Claudio Rorato.