Il nodo della questione relativa a come usare l’AI è proprio la capacità di utilizzare questi strumenti con cognizione di causa.
Fabio Buccigrossi è Country Manager di Eset Italia, filiale dell’omonima società americana con oltre trent’anni di esperienza in soluzioni di sicurezza digitale. Alcune riflessioni sull’intelligenza artificiale, contenute nel suo articolo “L’AI sul posto di lavoro: il buono, il cattivo e l’algoritmico”, sono utili proprio per avere una maggiore consapevolezza sull’uso degli strumenti di intelligenza artificiale, anche in ambito HR.
Come usare l’AI massimizzando l’esperienza umana
Senza idolatrarla né demonizzarla, Buccigrossi spiega limiti e benefici dell’IA. Suggerisce che un approccio efficace è affidarsi ai suoi punti di forza senza rinunciare a usare l’esperienza umana e quelle capacità che, almeno per ora, rimangono prerogativa del nostro cervello. Infatti, fatto salvo che l’IA fa risparmiare tempo e denaro e che aiuta a eliminare il rischio di errore umano. Perché può lavorare 24 ore su 24 senza mai stancarsi e ha per certi versi un livello di affidabilità che neanche il più dettagliato e metodico dei lavoratori può raggiungere, non siamo di fronte a un sistema infallibile.
Un sistema di IA, infatti, è “buono quanto buoni sono i dati sui quali è stato addestrato”. Ricordiamoci, infatti, dei bias, quei pregiudizi inconsci basati sulle nostre esperienze di vita che, se presenti nei dati su cui è addestrata l’IA, darebbero vita a un sistema di intelligenza artificiale non obiettivo. E un cervello artificiale non può ricorrere all’insieme di esperienze su cui un essere umano può fare affidamento per risolvere un problema in tempo reale o per tornare su una decisione che reputa errata.
Pensiamo agli strumenti di IA usati nel processo di selezione del personale. Come dice Buccigrossi, questi potrebbero “non considerare le implicazioni più ampie del rifiuto di candidati basato su bias algoritmici e le conseguenze che questo potrebbe avere sulla diversità e inclusione sul posto di lavoro”. Come dire: l’IA non ha quel sesto senso che a volte ci fa captare le sfumature di una particolare situazione o intuire le possibili conseguenze di una nostra scelta.
Fare people analytics in modo intelligente
Sono, quindi, sempre di più le funzionalità di AI integrate nelle soluzioni di people analytics. Ossia in quell’insieme di metodi, processi e strumenti di raccolta, analisi e interpretazione dei dati relativi alle persone, grazie ai quali si dovrebbero gestire le risorse umane in modo efficiente e il più possibile rispondente alle esigenze delle persone stesse. Un esperto in materia è Carloandrea Gadda, partner di Quint, società di consulenza che opera in ambito Tech HR.
Quint lavora nel cuore della people analytics, fornendo dati scientificamente validati e bias-free su persone e reti. Dice Gadda: “Le decisioni in ambito HR, come in tutti gli ambiti, sono molto sporcate da pregiudizi e bias. Per pulirle, servono strumenti psicometrici che oggi, proprio grazie all’IA, diventano scalabili”. Quint distribuisce in esclusiva per l’Europa e l’India la piattaforma di sviluppo Deeper Signals: come usare l’AI applicandola alla scienza del comportamento e mappa il potenziale individuale. Considerandone tratti di personalità, fattori motivazionali e competenze manageriali.
È un po’ come parlare di una rivoluzione nella rivoluzione. “Crediamo che, grazie all’intelligenza artificiale, ci sia la possibilità concreta di rivoluzionare i people analytics reinterpretando politiche e best practice convenzionali e applicandole a tutti i livelli dell’organizzazione”, continua. “Poter disporre di dati accurati e validati su tratti di personalità, competenze, potenziali e fattori motivazionali, e dunque che misurano il potenziale, può essere di grande aiuto per chi si occupa di HR”.