di Cesare Damiano |
A metà febbraio l’Istat ha diffuso i dati sulla produzione industriale italiana nel 2024. È il bollettino di una catastrofe.
In dicembre, la produzione è crollata del 3,1% rispetto al mese precedente. Ma è su base tendenziale che il numero si fa davvero impressionante: -7,1% su un anno fa. Percentuale che definisce il risultato di 23 mesi consecutivi di calo della produzione. Allargando l’intervallo di tempo esaminato, in due anni la produzione industriale italiana ha perso il 5,5%. L’indice della produzione industriale – indicatore che misura la variazione nel tempo del volume della produzione dell’industria – segna, in novembre, il 94,6 per l’Italia e il 98,3 come media dell’Unione Europea. Dunque, ci attestiamo addirittura sotto la media.
Un sistema industriale troppo debole
Passiamo dalla produzione al fatturato che ne discende. A fine febbraio l’Istat ha diffuso i dati di dicembre 2024. “Nel 2024 si accentua” spiega l’Istituto di statistica “la fase di debolezza del fatturato dell’industria in senso stretto, con una flessione annua dell’indice al netto degli effetti di calendario (-4,3%) più marcata rispetto a quella dell’anno precedente (-0,7%). Anche i volumi registrano dinamiche negative in media annua (-3,2% nel 2024; era -1,2% nel 2023)”.
Su base trimestrale, continua l’Istat, “l’andamento tendenziale del fatturato del comparto industriale nel 2024 è stato caratterizzato da un progressivo peggioramento nel corso dell’anno, con un’evoluzione più negativa per la componente interna. Prosegue invece la crescita annua del fatturato dei servizi (+1,3% in valore, +0,3% in volume), sebbene in rallentamento rispetto all’evoluzione del 2023 (+3,3% in valore, +1,3% in volume). Anche nel caso dei servizi la dinamica tendenziale nella seconda parte dell’anno ha mostrato un peggioramento, soprattutto nei volumi, in flessione nel terzo e nel quarto trimestre”.
Ammortizzatori sociali: settori e aree
Dunque, la situazione è questa: un Paese industriale, il nostro, fortemente indebolito nei suoi fondamentali, con ricadute ovvie e pesanti sul lavoro. E questo sia dal punto di vista della richiesta di ammortizzatori sociali che, al tempo stesso, sulla profilazione del mercato del lavoro. I numeri descrivono uno scivolamento del nostro tessuto produttivo in una direzione dal dubbio valore. Con ricadute per nulla promettenti sulla qualità del lavoro.
Cominciamo dagli ammortizzatori sociali, con i numeri della Cassa integrazione nel 2024 elaborati dal nostro Centro Studi di Lavoro&Welfare. Lo scorso anno la richiesta di ore di questo ammortizzatore sociale è cresciuta di oltre il 20% rispetto al 2023, superando i 500 milioni di ore autorizzate. Nell’anno si registrano 7 mesi nei quali la richiesta supera i 40 milioni di ore. In dicembre le ore di autorizzate sono più di 41 milioni. La domanda è diminuita dell’8,92% rispetto al mese di novembre 2024, mentre prosegue la crescita tendenziale che raggiunge quasi il 42% rispetto a dicembre del 2023.
I comparti più segnati dalla cassa integrazione
Nel complesso, oltre 63 milioni di giornate lavorative sono andate perse. A dire molto è la distribuzione tra i settori produttivi delle ore autorizzate di cassa integrazione. Nel 2024 è il settore Meccanico quello che richiede più ore: oltre 222 milioni (+40,60%). Segue il Metallurgico, con oltre 42 milioni di ore (+6,00%). Pelli e Cuoio, connesso alla catena di fornitura dell’Automotive, segna il maggiore incremento con oltre 36 milioni di ore (+128,20%). Ci sono poi Chimico, con oltre 34 milioni di ore (+0,01%), Tessile, con oltre 29 milioni di ore (+52,84%), Edile, con oltre 21 milioni di ore (-2,49%), Legno, con oltre 18 milioni di ore (+21,33%). Infine il Commercio, con oltre 23 milioni di ore (-6,73%).
La distribuzione geografica
La distribuzione territoriale ci dà una visione altrettanto esplicita dello stato delle cose. Le regioni con un volume maggiore di richiesta di ore di cassa integrazione sono:
- Lombardia con 98.628.351 ore (+22,31%);
- Veneto con 70.529.922 ore (+35,67%);
- Emilia-Romagna con 61.786.947 ore (+54,04%);
- Piemonte con 52.484.729 ore (+61,21%);
- Toscana con 36.306.776 ore (+48,33%);
- Puglia con 33.084.509 ore (+32,33%);
- Campania con 32.712.768 ore (+17,07%).
Peggiora la qualità dell’occupazione
Paradossalmente, in questa situazione, della quale molto si è parlato con toni spesso impropriamente trionfalistici da parte del Governo, l’occupazione è cresciuta. Cosa significa questo? Il report sull’andamento del mercato del lavoro, sempre del Centro Studi di Lavoro& Welfare, basato su dati aggiornati a settembre 2024, ci dà un’indicazione precisa. Se si osserva, anziché il dato assoluto, la dinamica delle ore lavorate per macrosettori, emerge uno spostamento strutturale dell’economia italiana verso il terziario. A fronte della regressione del manifatturiero.
Infatti, se le ore lavorate nel terziario, nel secondo trimestre 2024, sono superiori del 6% al livello del secondo trimestre del 2008, la contrazione nell’industria, rispetto a quello stesso anno, è di circa il 19%. Questi dati ci dicono qualcosa di rilevante in merito alla qualità dell’occupazione, al di là della sua dimensione quantitativa. Quelle del terziario sono le attività nelle quali si annidano maggiormente, oltre al nero, il lavoro a tempo, lo stagionale, il part-time, che è talvolta finto, e le partite Iva che non sono realmente tali. La conseguenza, ovvia, è una diffusione, in molti casi, di salari più bassi. La crescita della stabilità del lavoro è, perciò, in parte più apparente che concreta.
Scenario globale e politica industriale
In sintesi, in una situazione recessiva e stagnante, assistiamo alla crescita di una coorte di lavoratori tecnicamente stabili, ma che si avviano verso l’impoverimento, la fragilità, l’incertezza. Due sono le questioni, legate entrambe alla politica industriale, che rendono particolarmente preoccupante questo stato delle cose.
In primo luogo, lo scenario globale, nel quale l’insieme dell’industria europea attraversa una fase recessiva per la quale non si vedono, al momento, prospettive di un’inversione di tendenza. Perché è l’intera politica industriale dell’Unione che richiede, evidentemente, una revisione. Che deve muovere dalla rimodulazione di quel Green Deal che si sta dimostrando debole nell’impostazione rispetto all’aggressività strategica di Cina e Stati Uniti.
In secondo luogo, proprio l’integrale assenza di una politica industriale italiana. Non ve n’è traccia. Ed è assolutamente necessario che la sua urgenza venga portata al centro del discorso pubblico. È già tardi e non si può procrastinare oltre.
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