Quando in azienda si sta bene

Una buona politica di welfare aziendale fa bene all’impresa e ai suoi dipendenti, perché oltre a portare benefici tangibili al conto economico e alla reputazione dell’azienda, risponde in modo concreto alle esigenze, anche personali, dei lavoratori. E il 2020, con l’insorgere di nuovi bisogni e un equilibrio vita-lavoro da reinventare, lo ha ampiamente dimostrato.

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Welfare aziendale

di Virna Bottarelli |

Tra i tanti temi, più o meni divisivi, che interessano il mondo del lavoro, ce n’è uno che sembra mettere tutti d’accordo: il welfare aziendale. Che si tratti di uno strumento dai diversi aspetti positivi lo dice il 4° Rapporto Censis-Eudaimon, pubblicato a marzo.

Nelle sue prime pagine, il Rapporto, intitolato “Imprese, lavoratori e welfare aziendale nella grande trasformazione post Covid-19”, lo definisce come una risorsa per almeno tre ambiti aziendali: i conti, la comunità e la reputazione. E ne spiega i motivi: sui bilanci il welfare genera effetti positivi, tra risparmio fiscale certo e presumibile aumento della produttività; sulle comunità aziendali agisce come elemento di coesione, perché stimola l’engagement, la motivazione e il senso di appartenenza dei dipendenti; infine, sulla “social reputation” ha un effetto positivo perché un’azienda che si impegna a migliorare la vita dei membri della comunità in cui è inserita gode di buona reputazione.

Ad avvalorare la tesi del welfare come risorsa economica preziosa ci sono anche i numeri: se fosse esteso a tutte le imprese del settore privato, si sostiene nel Rapporto, il suo valore economico potrebbe essere circa 53 miliardi di euro. Ipotizzando, infatti, di estendere a tutte le imprese private i risparmi fiscali e gli incrementi di produttività attesi, rilevati dalle aziende “best in class”, il beneficio complessivo sarebbe pari a 34 miliardi di euro, mentre 19 miliardi sarebbe il valore dei servizi e delle prestazioni di welfare aziendale erogate ai lavoratori.

A ciascuno il suo welfare

Prima di esaminare come l’anno della pandemia ha inciso sulle politiche di welfare aziendale, è utile dare uno sguardo al Terzo Rapporto WelfareForPeople realizzato da Adapt in collaborazione con UBI Banca, che analizza i contratti sottoscritti sino al 2019, inseriti nella banca dati fareContrattazione. Il Rapporto misura le iniziative di welfare regolate dalla contrattazione collettiva basandosi su un indice (Adapt-Ubi Welfare Index) che cataloga e classifica le prestazioni e i servizi erogati ai lavoratori in azienda.

Semplificando l’accurato lavoro di Adapt – che opera anche la distinzione tra welfare occupazionale (prestazioni destinate alla persona, che non incidono sul rapporto di lavoro) e aziendale (misure che integrano lo scambio contrattuale e incidono sullo scambio tra lavoratore e datore di lavoro) – nel welfare rientrano le seguenti misure: previdenza complementare, assistenza sanitaria integrativa, assistenza ai familiari e cura, assicurazioni, educazione/istruzione, attività ricreative e tempo libero, buoni acquisto, mensa e buoni pasto, trasporto collettivo, formazione e flessibilità organizzativa.

Il Rapporto si focalizza sui settori metalmeccanico e chimico-farmaceutico, ma prende in esame anche edilizia, agricoltura e turismo. Dai contratti aziendali della metalmeccanica sottoscritti nel 2019 emergono una crescente attenzione per le misure di conciliazione e un’ampia diffusione dei cosiddetti flexible benefit, anche se in calo rispetto all’anno precedente. Cresce anche la diffusione di prestazioni di mensa e buono pasto (38%) e di previsioni sulla formazione (38%), mentre non è molto elevata la presenza di misure di previdenza complementare (15%) e assistenza sanitaria integrativa (13%).

Come si legge nel Rapporto, il welfare sembra “polarizzato tra le dimensioni occupazionale e aziendale, concentrato, infatti, da un lato sull’erogazione di quote welfare spendibili in maniera personalizzata dai lavoratori, dall’altro lato su misure relative alla conciliazione e alla flessibilità organizzativa”. Diverso è invece il panorama dell’industria chimico-farmaceutica: in questo settore sono la flessibilità organizzativa e la conciliazione vita-lavoro ad avere la meglio, rappresentando il 71% delle misure di welfare contrattate a livello aziendale.

Per quanto riguarda, invece, gli altri settori esaminati, Adapt evidenzia la tendenza del welfare a essere tema di contrattazione principalmente nelle aziende di dimensioni maggiori: il 44% delle intese sono state sottoscritte in imprese con oltre 1.000 dipendenti, il 25% in imprese tra i 250 e i 1.000 dipendenti e il 30% in aziende con meno di 250 dipendenti. Dal punto di vista territoriale prevalgono le intese sottoscritte nelle regioni del Nord Italia (69%).

Entrando nelle misure specifiche, sono aumentati gli interventi pensati per rispondere all’invecchiamento della popolazione aziendale, alla disabilità e/o a gravi patologie, con l’istituzione di osservatori per il monitoraggio, la promozione e l’implementazione di queste misure anche attraverso la figura del “Disability Manager”. In generale, prevalgono gli accordi inerenti misure per la conciliazione vita-lavoro (42%), seguite da quelle riguardanti il benessere del lavoratore al di fuori del contesto aziendale (39%) e le clausole di welfarizzazione del premio di produttività (19%).

C’È WELFARE E WELFARE

Universalistico, occupazionale, personale, unilaterale, negoziato ecc. Sono diverse le classificazioni quando si parla di welfare, ma la distinzione più significativa, che ricorre nei Rapporti presi in esame in questo articolo è quella tra welfare puro o “on top” e welfare derivato della convertibilità dei premi di risultato.

Nel primo caso: si individua un importo figurativo fruibile esclusivamente in beni e servizi, senza limiti, fatta salva “la non distorsione della capacità contributiva del beneficiario”, non ci sono obiettivi ai quali vincolare l’erogazione e non è obbligatorio il coinvolgimento delle controparti sindacali. Nel secondo caso: ci si rifà a quanto disposto dalla Legge di Stabilità 2016, che ha introdotto il principio della sostituibilità tra erogazione monetaria ed erogazione in beni e servizi welfare dei Premi di Risultato.

Questi devono essere legati a incrementi di produttività, redditività, qualità, efficienza o innovazione, misurati rispetto ad un periodo di riferimento congruo e istituiti all’interno di un contratto di secondo livello (aziendale o territoriale). L’erogazione del premio di risultato comporta un’agevolazione che prevede la parziale detassazione in capo al lavoratore degli importi erogati con l’introduzione di un’aliquota sostitutiva Irpef pari al 10% fino a un valore massimo del premio di 3mila euro per ciascun anno di corresponsione. Qualora si scelga la conversione del premio monetario in servizi, questi ultimi sono completamente detassati e de-contribuiti, sia per il lavoratore sia per il datore di lavoro.


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