di Romano Benini |
La capacità di competere costituisce l’elemento che misura la forza di un territorio. Sia che si tratti di una nazione che di una regione, la resilienza e la ripresa sono misurate attraverso la “capacità competitiva”.
Non si tratta di una idea vaga, di un principio teorico, ma del risultato oggettivo di un insieme di componenti, della misurazione della presenza e della qualità di una serie ben precisa di elementi. Questi fattori sono valutati dagli osservatori economici ed è molto utile conoscere come l’Unione Europea misuri la capacità di competere dei territori degli Stati membri, attraverso uno strumento, il “Regional competitiveness index”, che da alcuni anni costituisce il misuratore dell’andamento della forza dei sistemi territoriali europei, come una sorta di “analisi del sangue” per valutare lo stato di salute di una regione o di una nazione. In questi mesi in cui l’Italia è chiamata a sostenere la ripresa per uscire dalla crisi, con lo sforzo necessario per avviare le riforme e gli investimenti del Pnrr, può essere utile approfondire le informazioni che ci arrivano dallo studio della Commissione Europea sulla competitività delle nostre regioni. Si tratta di valutare un sistema analizzando la qualità di diversi indicatori dello sviluppo economico e sociale, che vengono sintetizzati in un unico dato medio per regione, e che considerano la capacità di governo, la stabilità macroeconomica, le infrastrutture, il mercato finanziario, l’innovazione, l’adeguamento tecnologico, le reti di impresa, il sistema socio- sanitario, educativo, formativo, nonché il funzionamento del mercato del lavoro.
Per capire come posizionare gli investimenti e quali scelte fare per valorizzare le importanti risorse del Piano per la ripresa e la resilienza è utile sapere quali sono le informazioni che ci arrivano da questa analisi oggettiva della capacità di competere delle regioni italiane e del suo andamento dal 2013 fino al 2019. La situazione è in sintesi la seguente:
- dal 2013 l’Italia ha perso in media capacità di competere e questo ha determinato minore ricchezza ed occupazione, come è testimoniato dal fatto che il livello occupazionale e del Pil di inizio 2020 era ancora inferiore rispetto a quello del 2008, all’avvio del lungo periodo di crisi;
- l’Italia in generale mantiene un livello superiore alla media europea per quanto riguarda i fattori di competitività, gli indicatori che riguardano il mercato finanziario, la stabilità macroeconomica, le infrastrutture per lo sviluppo, le reti di impresa, l’educazione di base, il sistema sociale e sanitario, mentre restano inferiori alla media gli indicatori che riguardano la formazione tecnica e superiore, il funzionamento del mercato del lavoro, l’innovazione e soprattutto la capacità di governo (ossia la capacità di prendere le giuste decisioni, di fare riforme e di attuarle in modo efficace);
- il livello di coesione territoriale italiano in questi lunghi anni di crisi è decisamente peggiorato e in un quadro di generale indebolimento del Paese è aumentata la distanza in termini di capacità competitiva tra le regioni, con un ritardo che non riguarda solo le regioni del Mezzogiorno, ma anche quelle regioni del centro, come l’Abruzzo, l’Umbria e le Marche, che sono state colpite anche dai terremoti e che, soprattutto per quanto riguarda le aree interne dell’Appennino centrale, si trovano in ritardo di sviluppo rispetto alla parte più avanzata del Paese e alla media delle regioni europee.
Si tratta di dati che evidenziano una tendenza critica e di lungo periodo che riguarda il Sistema Paese, che ha bisogno di uno scossone forte e da una efficace combinazione, sollecitata dalla Commissione Europea, tra investimenti e riforme. Tuttavia, se osserviamo cosa è accaduto nei tre anni di parziale ripresa globale che dal 2016 al 2019 hanno coinvolto anche l’Italia emerge un dato molto significativo: quando il nostro sistema economico si riprende questa ripresa riguarda soprattutto le regioni del Nord e non agisce allo stesso modo nei territori centro meridionali, mentre quando il sistema va in crisi, il Mezzogiorno e alcune regioni del centro Italia ne subiscono le conseguenze più gravi. Questa minore capacità di creare valore aggiunto e di competere non riguarda più solo le regioni del Sud: in questi ultimi anni si è allargata a quelle regioni “in transizione” come la Sardegna e l’Abruzzo, che si sono indebolite come sistemi territoriali.
I numeri dell’indice europeo della capacità competitiva delle regioni italiane sono molto chiari in questo senso e segnalano come dal 2013 al 2019 la Campania, la Sicilia, la Calabria siano rispettivamente passate, rispetto alle 268 regioni europee, dal 233°, 217° e 235° posto al 244°, al 232° ed al 241° posto. Un calo netto in termini di capacità di competere, che le colloca tra le ultime in Europa. La perdita di capacità si estende anche alla Sardegna, che retrocede dal 222° al 234° posto, all’Abruzzo, che cala gravemente dal 187° posto del 2013 al 213° del 2019. L’effetto delle crisi e del terremoto si fa sentire anche in Umbria e nelle Marche, che perdono circa quindici posizioni per entrare a far parte del secondo gruppo tra le regioni europee, quello dei territori con una capacità competitiva sotto la media. Appare evidente come l’Italia soffra di una difficoltà di competere che riguarda due elementi di fondo: il ritardo di sviluppo di ampie parti del Paese e le difficoltà strutturali che riguardano soprattutto gli aspetti del capitale umano, del mercato del lavoro e dell’innovazione. Per questo motivo il poderoso piano di investimenti collegato al Pnrr ed avviato in questi mesi può non essere sufficiente se non si interviene contestualmente con profonde riforme e con un cambio di quella strategia e di quella governance che negli ultimi anni ha allontanato tra loro i territori e le regioni, aumentando la disuguaglianza e diminuendo le opportunità.
Pnrr e investimenti: servono riforme per recuperare il ritardo
L’Italia per poter recuperare deve quindi soprattutto intervenire per migliorare in modo decisivo il ritardo strutturale delle aree in difficoltà. È evidente come il deficit di coesione riguardi anche le infrastrutture fisiche, dalla logistica alla mobilità, dagli insediamenti produttivi alla tecnologia (soprattutto la connessione per il digitale). Tuttavia, questo ritardo nelle infrastrutture per l’economia va affiancato a una maggiore attenzione rispetto al pesante ritardo che riguarda l’altra gamba delle infrastrutture per la competitività: quelle per lo sviluppo umano. Come emerge anche dalle analisi, il Mezzogiorno deve recuperare una storica difficoltà rispetto alla presenza di un adeguato sistema della formazione e del lavoro. Non è possibile costruire le condizioni per la crescita del Sud senza intervenire per rafforzare quel sistema di formazione tecnica superiore in grado di preparare le competenze richieste dal mercato del lavoro, migliorando l’attuale livello degli istituti professionali e tecnici e aumentando la presenza di Istituti tecnici superiori, come componente strutturale delle filiere dell’economia territoriale.
In questi ultimi anni il ritardo del sistema per la formazione delle competenze è al Sud apparso evidente, così come la presenza di centri di ricerca universitaria in grado di favorire il trasferimento tecnologico e la promozione dell’innovazione. Allo stesso modo, se valutiamo la capacità delle politiche attive di intervenire nei processi di transizione del lavoro e di sostenere le crisi di impresa e dei servizi per l’impiego di costituire un valido strumento per l’incontro tra domanda ed offerta di lavoro notiamo come il Mezzogiorno soffra al tempo stesso dell’incapacità del sistema pubblico di adeguare la propria offerta di servizi e di quella del sistema privato accreditato alla formazione e al lavoro di avere un ruolo significativo nei sistemi regionali del lavoro. Le infrastrutture attuali della formazione e del lavoro presenti nelle nostre regioni meridionali appaiono inadeguate a sostenere la ripresa. La situazione delle infrastrutture pubbliche della formazione e del lavoro nel Sud rende necessario non solo che il sistema pubblico assuma personale e migliori l’offerta, ma anche che venga rafforzata la capacità di promozione della presenza dei servizi privati, accreditati e specializzati, come avviene nelle regioni italiane ed europee più dinamiche.
Se analizziamo per esempio i livelli essenziali delle prestazioni dei servizi per l’impiego ad oggi solo la Sardegna sembra in grado di saper rispondere, anche grazie alla sua agenzia regionale Aspal alla sfida delle infrastrutture pubbliche del mercato del lavoro. In ogni caso la situazione del Mezzogiorno e delle nostre aree interne rende evidente come gli investimenti e le risorse rese disponibili dall’Unione Europea tramite il Pnrr rischino di diventare una opportunità mancata se non vengono in questi mesi avviate riforme profonde, che rafforzino il sistema dello sviluppo umano e delle competenze. Non bastano le risorse stanziate per gli ITS se non ci sono sistemi di impresa consapevoli dell’importanza di questo presidio formativo e in grado di organizzarlo e promuoverlo. La disponibilità finanziaria non risolve da sola la carenza in termini di legami sociali e di reti distrettuali, determinante per progettare uno sviluppo territoriale. Le riforme devono creare in primo luogo quel clima di fiducia che favorisce la collaborazione e permette di sostenere e promuovere nuove attività economiche e aggregazioni tra le imprese e al tempo stesso favorire quell’occupazione che deriva dalla capacità di dare servizi innovativi alle persone, al territorio e alle aziende. Il rischio altrimenti è che la ripresa avviata nel 2021 venga consolidata nei prossimi anni solo nel Nord e che l’Italia sia un Paese sempre più diviso. La scarsa coesione territoriale impedisce alla nostra economia di agire come una economia realmente nazionale e ci rende più deboli sul mercato globale.
Le competenze per competere
L’analisi del “Regional Competiveness Index” offre un giudizio tanto netto quanto poco considerato dai nostri decisori:
- il Sud soffre di un ritardo nella promozione del capitale umano e delle condizioni per lo sviluppo territoriale;
- questo problema ha alcune differenze tra le regioni ma sostanzialmente richiede investimenti, riforme e politiche del tutto analoghe e come tali da pianificare a livello nazionale e tra le regioni;
- esistono importanti potenzialità di mercato su cui il Mezzogiorno può far leva, che necessitano però di condizioni territoriali più favorevoli e di una maggiore capacità dei territori di fare sistema e di organizzare le filiere, i distretti e quei legami sociali e locali che costituiscono il “capitale relazionale”.
La situazione del nostro Mezzogiorno e delle aree in ritardo di sviluppo richiede una visione nazionale, con poteri e interventi specifici, non un semplice coordinamento di politiche regionali.
Per questo, in ragione delle misure contenute nel Pnrr e degli strumenti e fondi resi disponibili dall’Unione Europea, è utile che si definisca un piano straordinario di intervento, ipotizzando in questo senso una funzione rafforzata e diretta dell’Agenzia della coesione, che coinvolga Invitalia, Cassa Depositi e Presiti e le Regioni nella pianificazione degli investimenti. La leva finanziaria può intervenire affinché si possano posizionare interventi a programmazione e regia pubblica in grado collocare nel Mezzogiorno alcuni asset fondamentali dell’innovazione italiana, attrattivi per gli investimenti privati italiani e stranieri, anche nel rapporto con il trasferimento tecnologico e il rafforzamento della formazione tecnica superiore e universitaria promossa tramite il Pnrr. Questo piano deve per prima cosa agire sul grave deficit di infrastrutturazione sanitaria, sociale, formativa e che riguarda il capitale umano. Si tratta di determinare quelle condizioni sociali e culturali che sono la premessa per attivare convenienze reali che permettano il posizionamento degli investimenti privati in ragione della presenza di adeguate infrastrutture logistiche, tecnologiche, economiche e formative.
La precondizione per la crescita è che il nostro Mezzogiorno sia in grado di formare al meglio le nuove generazioni e di creare un contesto che renda conveniente la permanenza, il fare impresa e l’attrarre gli investimenti, anche quelli delle aziende che si trovano in aree più sviluppate e che ormai stentano a trovare manodopera qualificata nelle aree a piena occupazione. Il miglioramento di alcuni dati nell’economia meridionale, come le presenze turistiche, non deve trarre d’inganno. Il fattore che definisce la capacità attrattiva di un sistema territoriale non è la sua capacità di attrarre visitatori e vacanzieri, che vanno e vengono, ma giovani coppie che intendono viverci e imprese che vogliono aprire sedi e produrre. Il futuro del Mezzogiorno è dato dal fatto di saper creare le condizioni perché i giovani più scolarizzati decidano di rimanere, di lavorare e magari di progettare iniziative di impresa, approfittando di forme di sostegno che non sono presenti in altre aree del Paese. Perché questo sia possibile è poi necessario che l’Italia riscopra la sua posizione geografica: capire che siamo al centro del Mediterraneo e non solo a sud della Germania potrebbe essere molto utile.
LA CENTRALITÀ DELL’ECONOMIA DEL MAREL’Italia è un Paese di ridotte dimensioni, ma con una lunghezza delle coste significativa: ben 7.500 chilometri. Coste che sono centrali in un mare a sua volta piccolo (in quanto il Mediterraneo rappresenta poco più del 2% della superficie delle acque globali), ma decisivo per l’economia, perché dal Mediterraneo passa più del 25% del traffico globale su mare, che costituisce a sua volta di gran lunga ancora oggi la modalità prevalente nel traffico commerciale. Non solo, il canale di Sicilia costituisce l’unico passaggio percorribile che collega tra loro i tre oceani. Se poi consideriamo come l’economia del mare costituisca un macrosettore (trasporti, turismo, pesca, acquacultura, porti, logistica ecc) in crescita e con una delle maggiori capacità di creare valore aggiunto, dovremmo aver chiaro dove si colloca uno degli asset strategici non solo per il futuro dell’Italia, ma anche del Sistema Paese. Eppure, quella dell’economia del mare sembra un’opportunità ancora da cogliere, sempre se riusciamo a recuperare quel terreno perso in questi anni a vantaggio di altre nazioni, come Spagna e Turchia. La domanda che l’Italia si deve porre è perché in questi lunghi anni di crisi e di difficoltà i Governi non abbiano collegato il minore dinamismo economico e politico del nostro Paese anche alla sua perdita di influenza e peso nel Mediterraneo. Negli ultimi anni, il nostro Paese ha perso capacità competitiva soprattutto al Sud e ha mancato quelle occasioni di sviluppo legate all’economia del mare che sono state invece un volano interessante per la crescita di altre economie vicine, come quella spagnola. Emblematico è il caso della Sicilia, che non a caso è risultata in questo decennio la regione più penalizzata da un’evoluzione delle dinamiche economiche italiane che ha puntato decisamente sul Nord Est e sulla sua crescita. Il fatto che la grande isola, centrale nel Mediterraneo, sia invece diventata periferica nell’economia italiana la dice lunga sulla scarsa visione di come l’economia di una nazione non possa prescindere dalla sua collocazione geografica. Eppure, proprio la posizione centrale nel Mediterraneo ha fatto la ricchezza e la potenza dell’Italia del passato ed è stata per secoli oggetto di storiche dispute, con gli arabi e gli inglesi, i francesi e i turchi. La ripresa italiana passa anche da questo riposizionamento geopolitico, quantomai necessario. Le grandi potenzialità dell’economia del mare per il nostro Mezzogiorno sono ancora quasi tutte da esprimere e questa capacità dipende molto dagli investimenti, ma anche dalla nostra strategia politica ed economica nell’area. Lo sviluppo italiano può ripartire solo da una maggiore consapevolezza delle opportunità che derivano dalla nostra posizione geografica. Questo motiva anche il forte sostegno agli investimenti nel Mezzogiorno e alla coesione territoriale promossi dal Recovery Fund, tra cui il piano per il potenziamento dei nostri porti, determinante per la ripresa delle regioni del Sud, la cui economia è legata proprio al mare. |