Coaching e Mentoring: nemici amici

Dopo il coaching, le aziende più illuminate stanno inserendo tra i propri programmi di sviluppo e crescita il mentoring e il reverse mentoring.

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di Marina Fabiano |

Ora che i contenuti e le modalità del coaching cominciano ad essere noti e (quasi) normali tra le attività formative delle aziende e delle singole persone, consapevoli che una linea guida contribuisca fortemente ad arrivare veloci e saldi ai propri traguardi, ci si rende conto che il solo coaching non basta. Si ragionava di recente tra colleghi che un tempo il lavoro lo si rubava, nel senso che in azienda nessuno insegnava nulla a nessuno, soprattutto ai giovani, tenuti volutamente all’oscuro delle più recondite pieghe del sapere professionale e convenzionale. Ognuno si teneva ben stretto il proprio patrimonio di competenze e conoscenze, il giovane che entrava in azienda doveva imparare sbirciando il lavoro dei colleghi esperti e carpendone i segreti. Poi siamo entrati nell’epoca della formazione ad ampio raggio: e via di managerialità, leadership, soft skills, budget, business plan e temi più o meno accreditati e risolti. Nell’ultimo quindicennio ho sentito discettare parecchio di Coaching, interno o esterno, proposto ai mega dirigenti, al management di mezzo, pure ai capi reparto e a ogni team di lavoro, anche trasversale. Le aziende più innovative hanno persino insegnato ai loro manager i principi del Coaching, affinché gli stessi capi diventassero più accoglienti e supportivi verso i loro collaboratori, così che i subordinati potessero lavorare più volentieri. Ma il coaching non basta; come non sono sufficienti i programmi formativi online per far sedimentare concetti nuovi appena appresi. Prima di tutto ci vuole la volontà di accogliere il pensiero diverso e di imparare (su tali argomenti segnalo la rivista 78pagine, che nel suo primo numero tratta di “Apprendere ad apprendere” tramite coaching, formazione e narrazione). L’affiancamento di momenti di confronto di persona, a più occhi che si fissano permettendo di distinguere stati d’animo ed emozioni, rende i contenuti formativi o consulenziali più immediati ed efficaci. Il mentoring, in particolare, è quell’elemento oltremodo arricchente che un giovane in carriera non sempre riesce a costruirsi da solo. Solo i presuntuosi (“non ho bisogno di nessuno, mi basterà studiare e ragionare e conquisterò il mondo”) non ne colgono l’importanza.

Mentoring e reverse mentoring

Le aziende più illuminate da qualche tempo hanno inserito, tra i propri programmi di sviluppo e crescita dei giovani virgulti, il mentoring e il reverse mentoring. Entrambi i progetti possono essere studiati, avviati e continuati, senza necessariamente stabilire un momento conclusivo, in qualsiasi punto della propria storia professionale. Partendo dall’individuare i manager che hanno qualcosa da trasmettere (e vogliono farlo, altrimenti diventa un esercizio sterile), i giovani che dimostrano attitudine all’apprendimento (e la predisposizione a saper chiedere), stabilendo le modalità di accesso e di misurazione. Certo, perché ogni progetto che non sia portatore di numeri va in qualche modo misurato per capire se e quanto funziona, se e come modificarlo, come moltiplicarne gli effetti benefici, come evitare che diventi fine a se stesso. Il coaching resta in questo caso una competenza di base, per il mentor, da mettere in campo per avviare una relazione proficua con i propri allievi (mentee). Non troppi, naturalmente, altrimenti il nostro povero manager esperto passerà il suo tempo a lanciare carriere altrui anziché lavorare per i risultati aziendali.

Ogni progetto di mentoring dovrebbe avere degli obiettivi reali e realizzabili (ad esempio introdurre il giovane inesperto alle regole inespresse del mercato in cui opera l’azienda; fargli vedere come raccogliere informazioni sulla concorrenza; mostrargli i pro e i contro di una carriera interna verticale o laterale) da condividere assicurandosi che siano ben compresi, accogliendo eventuali richieste personali derivanti dalla curiosità del mentee. Si stabiliscono incontri periodici, si condividono compiti specifici, si controlla l’andamento dei risultati e la soddisfazione di entrambi i partecipanti. In tutto questo, non deve mancare il feedback reciproco, trampolino indispensabile per il prossimo passo (Che compiti ci diamo? Quando ci rivedremo? Con quali finalità? Cosa dovrebbe succedere nel frattempo?) Nel senso che al termine di ogni incontro periodico o di ogni occasione di lavoro in comune, non è solo il manager esperto che chiede al suo mentee “cos’hai imparato? In che modo potrei esserti di maggior aiuto? C’è qualcosa che vorresti suggerirmi di fare diversamente?”, dandogli un giudizio e dei suggerimenti, ma in modalità rispecchiante si pone lo stesso mentee offrendo e dandosi opportunità di migliorare la relazione stessa e i suoi vantaggi.

Il giusto abbinamento

Forse la parte più complicata è individuare gli abbinamenti giusti mentor-mentee. Un ente super partes deve farsi carico di accoppiare i professionisti secondo elementi di similitudine oppure di diversità, con l’aiuto di questionari e curriculum opportunamente predisposti, assicurando che le parti coinvolte ben comprendano l’onere e la finalità, nonchè i benefici reciproci. Tra le regole di ingaggio diventa senz’altro fondamentale il poter ricusare l’uno e/o l’altro, se la bontà della relazione non è reciproca, dandosi feedback onesti e accettandoli senza rancore. Non possiamo pretendere di piacere a tutti, né che tutti ci stiano simpatici. Meglio una relazione interrotta che una relazione trascinata, come capita talvolta anche nella vita vissuta, non solo in quella professionale. O no?


Mentoring, mentor e mentee

L’etimologia della parola mentore nasce dall’Odissea. Mentore, figlio di Alcinoo, era l’amico fidato e consigliere di Ulisse, che, prima di partire per Troia  gli affida la casa e la famiglia e gli chiede di prendersi cura di suo figlio Telemaco e di prepararlo a succedergli al trono. Il mentoring è diventato oggi una metodologia formativa che fa riferimento a una relazione “uno a uno” tra un soggetto con più esperienza (mentor) e uno con meno esperienza (mentee) al fine di far sviluppare a quest’ultimo competenze in ambito formativo, lavorativo e sociale. Si attua attraverso la costruzione di un rapporto di medio-lungo termine, che si prefigura come un percorso di apprendimento guidato, in cui il mentor offre sapere e competenze acquisite e le condivide sotto forma di insegnamento e trasmissione di esperienza, per favorire la crescita personale e professionale del mentee.

 

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