L’Italia e la moneta unica: «Rimanere nell’euro per cambiarlo»

Euro sì, euro no. è davvero plausibile il ‘piano b’ che prevede l’uscita del nostro Paese dalla moneta unica? E il ritorno alla lira o il regime doppia valuta? L’economista Carlo Altomonte: «Il sistema italiano è sano se teniamo sotto controllo il debito, meritiamo più flessibilità. Lo scetticismo verso Bruxelles è il frutto dell’eccesso di austerity. Ma il sovranismo è una risposta inadeguata come dimostra la Brexit, l’Europa unita deve rinnovarsi dall’interno e l’Italia può svolgere un ruolo decisivo».

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di Roberto Bettinelli |

L’Europa è ormai al centro del dibattito pubblico nazionale. Quella che sembrava una certezza ormai acquisita, ossia l’appartenenza insindacabile dell’Italia al progetto unitario inaugurato nel secondo dopo guerra, è ormai sotto pressione a causa delle critiche continue e crescenti che vengono rivolte a Bruxelles. Si è affermato un ventaglio di posizioni all’insegna della polarizzazione dove è possibile rintracciare le accese divergenze tra un convinto sovranismo, capace di immaginare proposte che si spingono fino all’uscita dall’eurozona, e un altrettanto convinto europeismo che è pronto a etichettare come populiste e irresponsabili le voci maggiormente euroscettiche. Un contesto combattuto, fortemente polemico, dove a volte diventa difficile orientarsi per l’opinione pubblica e che ormai non caratterizza solamente lo scenario italiano. Per capirne di più abbiamo intervistato Carlo Altomonte, docente di economia europea all’Università Bocconi e analista dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale di Milano.

Nel Paese e in tutto il continente crescono le forze euroscettiche.
Le ragioni sono da individuare nelle politiche economiche europee o sono da addebitare a motivi di ordine interno delle singole nazioni?

Non possiamo distinguere le due cose: sicuramente la politica economica nazionale, almeno per ciò che riguarda i Paesi dell’Unione Europea, è condizionata da Bruxelles. Tuttavia stiamo assistendo alla crescita di forze nazionaliste ed euroscettiche anche in Paesi al di fuori dell’area dell’euro come la Polonia e l’Ungheria. Il fenomeno, quindi, è profondo e strutturale. In realtà si tratta di risposte che sorgono davanti alle conseguenze negative della globalizzazione mettendo in luce la cattiva gestione di questa fase socio-economica da parte dei governi nazionali e dell’Unione Europea. La globalizzazione nel lungo periodo porta benefici e opportunità di crescita, come dimostra il caso italiano che dal 2014 in poi ha approfittato di una congiuntura internazionale favorevole aumentando le proprie esportazioni, ma nel breve termine può generare tensioni ed effetti penalizzanti per una parte dei cittadini e delle imprese.

Quali sono le conseguenze negative e in che modo incidono sulla vita delle persone?

La globalizzazione costringe ad attuare ristrutturazioni industriali molto dolorose soprattutto in presenza di strategie errate come è stata l’austerity europea. In questo caso, infatti, si sono manifestati aspetti peggiorativi sia per l’aumento della disoccupazione, ma più in generale in conseguenza di pressioni sul mondo del lavoro in tutta la sua interezza. In una situazione di crisi anche chi è occupato, infatti, vive male la propria situazione a causa di una perenne incertezza.

Le istituzioni europee criticano l’Italia per il debito eccessivo. Perché il nostro debito spaventa i Paesi partner?

Dobbiamo considerare prima di tutto che, per evitare di fallire, una parte del debito deve essere ogni anno rifinanziata. Qualcuno, in sostanza, deve prestarci i soldi per ricomprarlo. Il meccanismo è incentrato intorno alla vendita e all’acquisto dei titoli di stato, viene coordinato dalle autorità finanziarie dello stato, e comporta tranche di debito da collocare sul mercato che nel caso italiano possono raggiungere i 200-250 miliardi di euro l’anno. Se noi teniamo i conti in ordine e diminuiamo lo stock del debito, riusciamo a vendere questi titoli e gli interessi sul debito rimangono a livelli gestibili. In conseguenza di ciò veniamo giudicati dagli altri stati come interlocutori affidabili, soggetti che al momento pattuito risultano dotati delle risorse per pagare i debiti che sono stati contratti in precedenza. Ma se diamo segnali contrari, non tenendo sotto controllo il debito e il deficit, gli interessi aumentano e, a lungo andare, i nostri creditori potrebbero pensare che non siamo in grado di fare fronte agli impegni. E potrebbero decidere di non darci più fiducia. Gli effetti sarebbero deleteri. Se nessuno compra i nostri titoli, prestandoci i soldi per rifinanziare il debito, per evitare il default dovremo dilazionare gli stipendi dei dipendenti pubblici, le pensioni, i servizi rivolti a famiglie e imprese. O alternativamente chiedere un prestito all’Europa, alle condizioni che ci imporranno. Da qui l’importanza cruciale di tenere monitorato il debito e i relativi interessi.

Il governo chiede più flessibilità a Bruxelles. È un obiettivo praticabile?

L’Italia si merita più flessibilità. È un Paese che riesce a garantire un avanzo primario: spendiamo meno di quello che incassiamo al netto degli interessi sul debito. In Europa esiste un solo caso analogo: la Germania. Anche in riferimento alla bilancia commerciale esportiamo più di quello che importiamo. La flessibilità richiesta dal ministro Tria è praticabile e opportuna. Credo anche che non ci saranno problemi per ottenere margini di manovra purché, ovviamente, non si abbandoni il sentiero di un fermo e rigoroso contenimento del debito.

Quali sono i limiti dei parametri di Maastricht e, se ci sono, come potrebbero essere superati per favorire l’Italia?

I limiti ci sono e in particolare si sta lavorando per prevedere un meccanismo di compensazione e di stabilizzazione del ciclo economico europeo. Se per qualche ragione uno o più Paesi dovessero rallentare la loro crescita ci deve essere una risposta comune efficace che non può essere l’austerità. La domanda complessiva europea deve rimanere stabile. È necessario un bilancio comune europeo e in questa prospettiva mi sento di valutare positivamente la proposta francese. La Germania è ancora restia ad accettare questa visione ma ci sono tutti gli argomenti per convincerla. Parallelamente, però, i singoli Paesi devono garantire le riforme strutturali. Nel caso dell’Italia una maggiore efficienza della macchina statale, meno spesa corrente e più spesa per investimenti, un sistema funzionale della giustizia, flessibilità per difendere i lavoratori piuttosto che i posti di lavoro.

Trump ha varato una politica protezionistica fondata sui dazi destinata a colpire la UE. Il Ttip è naufragato. Il Ceta è entrato in vigore ma è a rischio. Sta venendo meno la fiducia nel libero mercato?

I dazi sull’acciaio e sull’alluminio ci penalizzano ma non in una misura rilevante. Chi sta invece pagando il costo del protezionismo sono proprio gli Stati Uniti dopo che l’Europa ha reagito con alcune contromisure che hanno colpito l’industria motociclistica e degli alcolici mettendo seriamente in difficoltà alcuni Stati e alcuni settori importanti, anche se probabilmente con gli Usa troveremo un accordo. In merito al Ceta, il trattato con il Canada, e agli accordi che sono stati siglati di recente con il Giappone dobbiamo essere soddisfatti. Sono state colmate le lacune accumulate negli anni dall’Organizzazione mondiale del commercio. Il Ceta, in particolare, accoglie le istanze di oltre il 90% delle realtà produttive dell’agroalimentare italiano, disciplina le professioni e il settore degli appalti, definisce standard di sicurezza industriale e ambientale. Il libero mercato opportunamente regolato è un vettore di crescita e di prosperità soprattutto per le aziende del Made in Italy. All’ondata protezionistica bisogna rispondere nel merito, sottoscrivendo accordi commerciali transnazionali di nuova generazione che rappresentino una fonte di tutela per le imprese e i lavoratori.

L’acquisto dei titoli di stato italiani da parte della Bce è in scadenza. Che cosa accadrà in futuro?

La Bce guidata da Mario Draghi ha dato prova di grande lungimiranza consentendo ai titoli di Stato Italiano di trovare un’allocazione sicura con la conseguenza di contenere lo spread. Se è vero che la leva del “quantitative easing” finirà è anche vero che l’azione benefica della Bce non sparirà del tutto. I tassi di interesse rimarranno bassi per tutto il 2019 e c’è l’impegno da parte dell’istituto di Francoforte a mantenere invariata la dimensione del suo bilancio, dunque rifinanziando il debito in scadenza. Ci sarà meno supporto ma non un’assenza di supporto.

Ai tempi della costruzione dell’esecutivo in carica si è parlato molto di ‘piano b’ e di un eventuale ripristino della sovranità monetaria. Sono ipotizzabili il ritorno alla lira o la soluzione di una seconda moneta affiancata all’euro?

Portare l’Italia fuori dall’euro è un salto nel buio da una scogliera. Si può fare, ma il rischio di farsi male è elevato. Tentare di ricostruire lo scenario della svalutazione della lira, così come avveniva con successo negli anni 90, è ormai impossibile dentro una dimensione economica globale, in cui i rapporti tra imprese non sono solo dettati dal prezzo. La svalutazione della moneta, inoltre, nel breve termine provoca l’incremento delle disuguaglianze sociali. In riferimento all’ipotesi di varare una moneta parallela all’euro, nell’attuale regime sarebbe una soluzione illegale. L’euro non va abolito ma migliorato. Il disegno tedesco di una moneta europea forte in un contesto di austerity ha portato alla riduzione degli investimenti pubblici e privati dequalificando gli standard di vita dei cittadini. Il risultato è stato una crescita esplosiva dell’euroscetticismo di cui la stessa Merkel sta pagando grandemente il prezzo. Anche la Germania, oggi, è pronta a cambiare visione.

Politica estera: si accumulano i dossier critici. Brexit, Russia e Cina. Quali le prospettive?

Le magnifiche sorti progressive della Brexit si sono arenate. I dati mostrano che l’anno 2017-2018 è stato quello con minore crescita per l’economia inglese dal dopoguerra ad oggi escludendo gli anni più duri della recessione. Il governo britannico sta dunque progressivamente abbandonando la versione hard della Brexit per convertirsi a una versione soft che realisticamente sarà simile a un accordo come è quello che è stato siglato con il Canada o il Giappone. La Brexit è un monito che dovrebbe far riflettere tutti coloro che invocano più sovranità anche per l’Italia. In merito alla Russia, le complicazioni vanno risolte quanto prima. Pensiamo alle sanzioni. È evidente che il non rispetto dei confini avvenuto in Crimea e in Ucraina non può essere tollerato, ma bisogna trovare al più presto una modalità di coabitazione con Mosca. Le nostre economie sono complementari. La Russia è un grande produttore di energia e i Paesi europei sono grandi consumatori di energia. Il che vuole dire che dobbiamo collaborare, tanto più che il mercato russo si dimostra assolutamente ricettivo verso i prodotti italiani. La Russia ha dimostrato negli anni di non avere interessi espansionistici verso l’Europa se non in funzione autoprotettiva. Il caso di Pechino è diverso: finora il mercato cinese non ha rappresentato una grande opportunità in termini di domanda per le nostre aziende. La Cina sta beneficiando della globalizzazione con una presenza commerciale internazionale molto intensa e aggressiva, ma non sta offrendo pari accesso al proprio mercato. È una distorsione da correggere.

Quali sono i punti di forza della nostra economia e in che modo l’Italia può rafforzare il suo ruolo all’interno dell’Unione Europea?

Il cammino dell’economia italiana degli ultimi tre anni è stato positivo. Lo dimostrano i numeri che rivelano una crescita costante a partire dagli anni drammatici del 2011 e del 2012, anche se non abbiamo ancora risolto i problemi strutturali dovuti all’eccesso di frammentazione industriale, a un comparto dei servizi scarsamente competitivo e a una amministrazione pubblica che garantisce prestazioni efficienti a macchia di leopardo. Rimanere in Europa è un’esigenza strategica. Le economie europee devono cooperare perché questo è il solo modo per contare nel mondo e non subire le regole imposte da altri. Da qui a 10 anni nessuna delle grandi economie del continente, comprese la Germania e la Francia, faranno parte del G7. Non dobbiamo collocarci all’esterno del progetto europeo ma dobbiamo rimanere all’interno e cambiarlo in linea con le nostre aspettative e i nostri obiettivi. 


Carlo Altomonte, docente di economia europea all’Università Bocconi e analista dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale di Milano
Carlo Altomonte, docente di economia europea all’Università Bocconi e analista dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale di Milano

Carlo Altomonte è Senior Associate Research Fellow presso l’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale. È professore associato di economia dell’integrazione europea presso l’Università Bocconi. Ha lavorato come consulente per un certo numero di istituzioni nazionali e internazionali, tra cui il governo italiano, le Nazioni Unite, il Parlamento europeo, la Commissione europea e la Banca centrale europea. Le sue principali aree di ricerca e pubblicazione sono l’integrazione europea, il commercio internazionale e l’economia politica della globalizzazione.


 

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