Il post pandemia tra ripresa e dubbi

Lo scenario italiano post pandemico rappresenta una occasione unica che abbiamo, come Paese, per ripensare le dinamiche sociali e lavorative.

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Green Pass

di Luigi Beccaria* |

Il fotodinamismo futurista è stato definito dal regista italiano Anton Giulio Bragaglia come “il dinamismo effettivo, realistico, degli oggetti in evoluzione di moto reale”.

È a questa vecchia definizione che mi rifarò nel tentativo di analizzare una questione magmatica e cangiante come quella relativa al futuro, anche molto prossimo, del mondo del lavoro, in relazione all’evoluzione della situazione pandemica che ha stravolto le nostre vite nel corso dell’ultimo anno e mezzo. Una questione così magmatica e cangiante da rendere assai elevato il rischio di scrivere l’articolo con una situazione di fatto, e di vederlo stampato qualche settimana dopo, con una situazione completamente stravolta.

Il lavoro alla prova del Green Pass

Prova ne sia che, proprio nei giorni in cui mi lambiccavo sulle riflessioni intorno alla legittimità giuridica dell’eventuale estensione al lavoro subordinato del cosiddetto “Green Pass”, il Governo, con un’accelerazione imprevedibile che ha superato il convulso dibattito parlamentare (secondo una dinamica ormai familiare al presente esecutivo, già analizzata da vari studiosi: a parere di chi scrive, nel modo più autorevole e compiuto, dal professor Ernesto Galli della Loggia), rendendo necessario il possesso del ‘passaporto verde’ non solo per la totalità dei lavoratori subordinati strictu sensu, ma anche per i lavoratori domestici e gli autonomi, di fatto rendendo impossibile qualsiasi forma di lavoro in assenza del suddetto requisito. Non è questa la sede per analizzare (trattasi certamente di un fenomeno di abnorme rilevanza, evidentemente imprevedibile fino a un anno e mezzo fa) la validità per così dire filosofica (nel senso di filosofia del diritto) della questione, con il rischio da un lato di venire sopraffatti dal cosiddetto “recentismo”, ossia la trattazione di questioni senza che ne sia valutata attentamente la prospettiva storica di lungo termine, e dall’altro di finire con l’ammantare una questione che ha finalità prevalentemente pragmatiche (ridurre la possibilità di contagio, consentire alle imprese e ai lavoratori di continuare a lavorare) di eccessivi significati etico – filosofici, la cui astrattezza si pone in una condizione di ontologica incompatibilità con la necessaria “Realpolitik” che mai come ora (sia per l’esigenza di mantenere la situazione del sistema nazionale sanitario sotto il livello di guardia, sia per la necessità di attuare rapidamente e senza intoppi il cosiddetto Pnrr) deve guidare l’azione dello Stato.

Possiamo limitarci, dal mio punto di vista, a prendere come un dato di fatto che il possesso del passaporto verde concorre, sulla base delle evidenze scientifiche disponibili, se non all’eliminazione del rischio di diffusione pandemica, quantomeno a una sua notevole mitigazione, e parallelamente anche alla diminuzione del carico gravante sul sistema sanitario, per cui, al di là delle questioni in punta di filosofia del diritto, si può ritenere ragionevolmente ed empiricamente che la prima novità (decorrente, come ormai arcinoto, dal 15 ottobre 2021) del mondo del lavoro sarà la preventiva “scrematura” dei soggetti che per qualche ragione hanno deciso di non immunizzarsi. E tuttavia appare evidente che i segni della pandemia non verranno cancellati con un colpo di bacchetta magica, che altre trasformazioni interesseranno le dinamiche di imprese e del lavoro inteso nella sua nozione più generale, per cui sarebbe miope ritenere che la semplice applicazione del green pass possa ripristinare lo status quo ante del mondo del lavoro.

La pandemia e le nuove dinamiche

Come ampiamente noto, infatti, la pandemia ha ricoperto il ruolo di catalizzatore di molte dinamiche che precedentemente avevano uno sviluppo embrionale, come ad esempio il ricorso allo smart working, oppure ha stravolto alcuni paradigmi politici precedentemente impostisi (vedi la prevalenza delle esigenze di stabilità dei lavoratori rispetto a quelle di flessibilità delle imprese, con contestuale ridimensionamento dello strumento del contratto a tempo determinato); molti di questi cambiamenti, se non irreversibili, rientreranno in tempi più lunghi rispetto a quelli in cui (auspicabilmente) la pandemia verrà definitivamente superata, per cui sarà opportuno che il legislatore “cavalchi” questo processo, invece di subirlo. Tali trasformazioni, infatti, hanno – e continueranno ad avere – ad oggetto sempre di più il modo stesso in cui i lavoro è concepito: parole come “digitalizzazione” e “transizione ecologica” cesseranno di essere vacui slogan politici, e inizieranno a riverberarsi in modo concreto sull’occupabilità di centinaia di migliaia di persone, che vedranno la loro vecchia occupazione ormai superata dal rapido procedere degli eventi, ma parimenti vedranno sorgere numerose nuove occasioni. A tal fine sarà necessario potenziare notevolmente i canali formativi, liberandoli il più possibile di lacci e lacciuoli formali, abbracciando una visione sostanzialistica che abbia per tema principale la rioccupabilità nei nuovi ambiti e settori che si affermeranno.

La ricerca di un punto di equilibrio

Cessata l’emergenza, fatta salva la continuità nell’erogazione di sussidi ai soggetti bisognosi e non in grado di prestare attività lavorativa, bisognerà puntare in particolare sulla formazione e rioccupabilità dell’ampia platea di “neet” presente in Italia, implementando in modo significativo le politiche attive e cercando di rendere la formazione e l’occupazione più appetibile della disoccupazione e del lavoro “nero”.

Sarà necessario trovare un punto di equilibrio sullo smart working (come i giganti big tech americani, da buoni precursori, stanno faticosamente tentando di fare), che non coincida con il ruolo di marginalità ricoperto sino al 2020, ma nemmeno con il ricorso pervasivo e improvvisato, più assimilabile invero, in termini di puro diritto del lavoro, al mero “telelavoro” che non al lavoro agile nel reale senso del termine, cui abbiamo giocoforza assistito dal tristemente noto marzo del 2020 a oggi. Alla luce della non totale prevedibilità dell’andamento epidemiologico, sarebbe a parere di chi scrive opportuno mantenere un approccio di flessibilità per le imprese, prorogando per il tempo necessario la “deregulation” del contratto a tempo determinato, in modo da non disincentivare le assunzioni per le società che abbiano momentanei picchi di lavoro, ma le cui prospettive future appaiono incerte. L’occasione che abbiamo come Paese di ripensare le dinamiche sociali e lavorative sotto la guida del soggetto più autorevole possibile, per curriculum e prestigio internazionale, è quasi unica: sarebbe folle sprecarla proprio ora che i motori della ripresa si stanno scaldando.


* Luigi Beccaria è avvocato ed è partner dello Studio Elit. Collabora con l’Università degli Studi di Milano e con l’Università Cattolica del Sacro Cuore.

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