7 milioni le donne italiane “inattive”

Il Rapporto Randstad mette a nudo la situazione di milioni di donne italiane tra i 30 e i 69 anni, per le quali partecipare al mercato del lavoro è difficile e ancora di più lo è rientrare

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Donne italiane e disparità di genere

di Daniela Garbillo |

In Italia il 43%, nell’Unione Europea il 32%, in Germania il 24% e in Svezia il 19%. Si tratta della percentuale di donne inattive tra i 30 e i 69 anni. In cifre, oltre 7 milioni di donne italiane, troppe, soprattutto se rapportate ai 20 milioni complessivi di occupati nel nostro Paese.

I motivi? Viene subito da pensare alla necessità di occuparsi dei bimbi piccoli o della famiglia. Ma l’inattività di moltissime donne italiane si prolunga ben oltre questo periodo. Nel corso dei quarant’anni di quest’arco di vita le donne italiane incontrano, infatti, nei diversi ambienti familiari, lavorativi e sociali, una serie di opportunità. Ma anche pesantissimi vincoli e condizionamenti. Una molteplicità di “scale mobili”, troppe delle quali in discesa e con poche possibilità di risalita. Il tutto in un tessuto sociale che ancora nel 2022 ritiene “normale” che ad occuparsi di bambini e persone bisognose, in famiglia, siano sempre e solo loro. In un Paese non ancora in grado di esprimere donne nei ruoli apicali.

Una partita impari per le donne italiane

Il rapporto Randstad parte dall’analisi delle maggiori difficoltà che le donne incontrano nel tentativo di partecipare al mercato del lavoro e di rientrarvi una volta uscite. Prima dei trent’anni il tasso di occupazione si attesta al 36,3% per quanto riguarda i maschi e al 26,9% per le femmine. Con un gap di genere pari a 9,4 punti percentuali.

Nella fascia 35-44 anni il tasso di occupazione maschile è pari all’84,7%. Mentre il tasso di attività delle donne passa dal 70,6% per la fascia 35-44 anni, al 47,4% per la fascia 55-64. Il dato dell’Italia è nettamente inferiore sia alla media europea, sia rispetto ad altri paesi come Germania, Francia e Spagna. L’unica classe di età in cui l’Italia si avvicina alla media UE e supera Francia e Spagna è quella 65-69. Per questa fascia il tasso di attività femminile è pari al 9,9%, contro il 10,4% della media europea.

Anche il dato sul tasso di occupazione delle donne desta non poche preoccupazioni. Le uniche due fasce di età in cui il nostro Paese si avvicina al dato europeo e al dato di Germania, Francia e Spagna sono le ultime: 60-64 e 65-69. Il primato italiano di inattività si conferma anche riguardo alla differenza tra tasso di inattività delle donne, particolarmente acuta nel Mezzogiorno, e tasso di inattività degli uomini.

Donne italiane e mondo del lavoro: il rapporto Ranstad

Inattive sì, ma perché?

Nelle indagini dell’Istat, il 27,7% del totale della popolazione femminile italiana tra i 30 e i 69 anni si dichiara “casalinga”. Quasi una donna su tre. Di queste, poco più della metà vive al Sud o nelle Isole (il 50,7%). Il mondo delle casalinghe, però, non è omogeneo. Secondo uno studio realizzato dall’Istat nel 2017, il 74,5% delle casalinghe possiede al massimo la licenza di scuola media inferiore. Il 42,1% delle casalinghe vive in una coppia con figli, un quarto in coppia senza figli e il 19,8% da sola.

Il motivo principale per cui le casalinghe di 15-34 anni non cercano un lavoro retribuito è familiare nel 73% dei casi. Seicentomila casalinghe sono scoraggiate e pensano di non poter trovare un lavoro. Perché? Le principali motivazioni sono due: per scelta o per obbligo. L’inattività per scelta nasce da decisioni consapevoli di non partecipare al mondo del lavoro. L’inattività per obbligo è subita e fa parte della vasta area dello “scoraggiamento” il cui confine con la disoccupazione è molto labile. La scelta di non lavorare e di non cercare lavoro per occuparsi della famiglia e dei figli ha buone motivazioni. Soprattutto in un Paese come l’Italia, privo di una solida infrastruttura di servizi all’infanzia, come, ad esempio, un’adeguata copertura di congedi retribuiti per le madri.

Le donne italiane subiscono la “Child Penalty”…

In Italia, su 8,6 milioni di occupate tra i 30 e i 69 anni, 2,8 milioni, ovvero il 32,6% lavora part-time. Sul totale delle donne che non lavorano a tempo pieno, il 16% dichiara di lavorare part-time per prendersi cura dei figli, di bambini o di altre persone non autosufficienti. Il fenomeno è maggiormente presente al Nord-Est (21,4%) e meno nel Sud e nelle Isole (7,7%).

E gli uomini? Su 11,6 milioni, solo 880mila lavorano a tempo parziale, ovvero il 7,6%. Se osserviamo l’occupazione nell’anno 2020 vediamo come l’87,8% dei papà era occupato, contro il 57,1% delle mamme. Un divario di genere di 30,7 punti percentuali. Gli uomini che lavorano part-time per prendersi cura di figli, di bambini e/o di altre persone non autosufficienti in Italia sono solo l’1%. Diventa quindi scontato che sia la donna a lavorare part-time per prendersi cura di figli o altre persone non autosufficienti?

L’Inps chiama questo effetto “Child Penalty”, ovvero “penalizzazione da figli piccoli”. Nel rapporto annuale 2020 analizza come nella fascia di età 25-54 anni (tipicamente gli anni in cui si hanno figli minorenni a carico), il gap tra donne senza figli e mamme con un solo figlio era relativamente contenuto (63,1% il tasso di occupazione delle prime, 60,1% quello delle seconde). A risaltare maggiormente, da un lato il gap tra madri e padri (che con due figli minorenni sfiorava i 32 punti percentuali). Dall’altro l’enorme differenza con le donne nella media UE28. Senza figli o con un figlio in Italia l’occupazione femminile registrava oltre 15 punti percentuali in meno della media europea.

Questa penalizzazione permane anche a diversi anni di distanza dalla nascita. A quindici anni dalla maternità, i salari lordi annuali delle madri sono di 5.700 euro inferiori a quelli delle donne senza figli rispetto al periodo antecedente la nascita.

… e il familismo amorale

Il fenomeno della “Child Penalty” nel nostro Paese è sicuramente influenzato dalla carenza di servizi per la prima infanzia. La percentuale di copertura dei posti negli asili nido rispetto ai bambini residenti fino a 2 anni compiuti è del 25,5% (il target europeo è del 33%). Che ciò si ripercuota quasi esclusivamente sulle donne, invece, è frutto del “familismo amorale”. Il 51% degli italiani ritiene, ad oggi, che il compito principale di una donna sia quello di dedicarsi alla casa e alla famiglia.

L’occupazione femminile si scontra dunque con un “disaccordo amorale” che si traduce per  in effetti reali. Il 70% delle persone che nel mondo vivono in condizione di povertà sono donne. Le differenze tra i sessi partono dall’inizio della vita, con incentivi verso diverse materie scolastiche (più matematica, scienze ed educazione finanziaria per i ragazzi, più arte e letteratura per le ragazze).

Stereotipi sottili e pregiudizi linguistici che tendono a creare familiarità, o distacco, con questioni come guadagnare denaro, risparmiare, affrontare il rischio, budget e simili. Difficile, quindi, contrastare l’inattività delle donne, fintanto che le attività di cura di casa, anziani e bambini rimarranno nell’immaginario collettivo una prerogativa femminile.

Un capitale umano sprecato

Oltre al danno, la beffa. Sì, perché questa condizione si traduce in un grande spreco di capitale umano femminile, che da un lato registra una maggiore partecipazione a percorsi universitari ma dall’altro sfocia in carriere poco remunerative. Nel Rapporto 2021 di AlmaLaurea viene evidenziato come le donne rappresentano da tempo la maggioranza dei laureati, nel 2020, infatti, il 58,7% dei laureati è donna. Le donne, quindi, sembrano maggiormente formate e qualificate.

Ma perché allora l’occupazione femminile è sempre più bassa di quella maschile? Forse perché i percorsi formativi che offrono una migliore occupazione dopo la laurea non sono quelli frequentati dal genere femminile? Lo studio sembra confermare questa ipotesi, dal momento che i livelli di competenze matematiche delle donne sono inferiori rispetto a quelle degli uomini. E tra le cause vi è appunto una loro preferenza per percorsi meno tecnici, proprio quei percorsi che portano a occupazioni più remunerative.

Non è ancora scontato, quindi, per una bambina italiana, immaginarsi un futuro da imprenditrice, presidentessa di un CdA o primario. Ma è proprio lì che bisognerebbe intervenire affinché le generazioni future possano ridurre, fino ad azzerare, stereotipi e divario di genere. La strada ci sembra ancora molto, molto lunga.

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