di Romano Benini |
È chiamato “Great Resignation”, ossia grande dimissione, un fenomeno che è iniziato in Occidente, a partire dagli Stati Uniti, in concomitanza con la crisi sanitaria e che è poi proseguito, estendendosi anche in Europa e arrivando in Italia. Si tratta dell’aumento delle dimissioni volontarie, della decisione di milioni di lavoratori di abbandonare il posto sicuro, di rinunciare alla carriera, per seguire altre priorità e magari cambiare lo stile di vita.
Questo fenomeno è senz’altro conseguente al rallentamento forzato imposto dalla pandemia e all’emergere di una maggiore attenzione negli individui alle proprie condizioni di salute. Dall’analisi di quanto sta avvenendo in questi mesi è come se l’attenzione al nostro stato di salute imposto dalla diffusione del Covid 19 e i conseguenti cambiamenti rispetto allo stile di vita abbiano comportato in molte persone il desiderio di cambiare lavoro. Ritenendo che anche le modalità con cui si lavora facciano parte delle cattive abitudini o del contesto negativo che è necessario cambiare per poter star bene. La pandemia è stata il fattore scatenante di una questione in corso da molto tempo. L’aumento delle situazioni patologiche dello stress da lavoro correlato costituisce una delle caratteristiche del cambio di fase del nostro modello economico.
Il Quarto Capitalismo
Il passaggio al “Quarto Capitalismo” è stato in molte aziende tradotto esclusivamente con l’accelerazione dei tempi e l’introduzione delle tecnologie digitali sul lavoro e con la possibilità di aumentare i fattori di stress e la reperibilità richiesta al dipendente fuori dagli orari. La stessa condizione dello “smart working” diffusa durante la pandemia ha spesso avuto poco a che fare con la flessibilità del “lavoro agile”. Ma ha comportato per molti lavoratori soprattutto un aumento del carico e dei ritmi di lavoro. Stressati tra una call e l’altra i lavoratori che rinuncerebbero volentieri al presunto benessere dello smart working secondo le rilevazioni statistiche, sarebbero quasi la maggioranza in molte economie occidentali.
In ogni caso, dagli Stati Uniti all’Italia, le ricerche ci indicano come il quaranta per cento dei lavoratori desideri cambiare lavoro quanto prima e molti di loro intanto abbiano deciso di licenziarsi. Si tratta del bisogno di “rallentare”, di non avere più il lavoro come priorità assoluta, ma anche di non sacrificare il proprio benessere personale per il successo lavorativo e di dedicare più tempo per se stessi e per la propria famiglia. Ci si allontana quindi da quei contesti lavorativi che si ritengono nocivi per il proprio benessere. Non a caso questa scelta viene fatta soprattutto da manager o da persone che non rischiano di cadere in povertà e che possono permettersi uno stop dal lavoro, magari limitato nel tempo, per poter riflettere sulle proprie priorità.
Il fenomeno delle grandi dimissioni
Il fenomeno è partito dagli Stati Uniti, in cui dal 2021 più di 5 milioni di persone hanno rassegnato le dimissioni volontarie dal lavoro, per arrivare in Italia, Paese in cui circa 800mila lavoratori si sono dimessi negli ultimi mesi, con un aumento di circa il 38% dal 2020. In un Paese in cui, a differenza degli Stati Uniti, si fa più fatica a cambiare lavoro, si tratta di un dato davvero significativo. Quasi il quaranta per cento di chi si è dimesso lo ha fatto senza avere ancora trovato un’alternativa rispetto al posto da cui ci si è licenziati.
Per questo motivo si tratta di un fenomeno che, se in parte è spiegabile dalla fiducia di poter migliorare, usciti dalla pandemia, la propria condizione, dall’altro è anche sintomo della crisi di una cultura del lavoro e manageriale che si è imposta nell’economia negli ultimi anni. Ma che non ha fatto i conti fino in fondo con il cambiamento di paradigma che ha coinvolto soprattutto le nuove generazioni.
Le cause di fondo
Per riflettere sulle ragioni di questo importante fenomeno è corretto valutarne le caratteristiche di fondo. Coinvolge nazioni con una ricchezza piuttosto alta, è più diffuso nelle aree più dinamiche e competitive e riguarda soprattutto le generazioni più giovani. Questi elementi portano a incrociare in parte questo fenomeno a quello, ben noto in Italia, di quelle fasce giovanili qualche anno fa chiamate “choosy”, indisponibili a un lavoro che non sia pienamente soddisfacente. E al dibattito in corso sui motivi della difficile reperibilità di giovani disposti a lavorare nei ristoranti o impegnati nella acquisizione di competenze per lo svolgimento di mansioni di tipo manuale o esecutive.
In ogni caso, il fenomeno della ricerca di un nuovo lavoro e delle dimissioni riguarda soprattutto le persone che hanno meno di quarant’anni e le generazioni più giovani in Occidente sembrano preferire il benessere individuale alla carriera. Si parla di generazione Yolo, intendendo con questo termine l’acronimo che sta per “you only live once”, ossia “tu vivi una volta sola”. A questo si unisce una “Yolo Economy”, fatta da quelle persone che rinunciano al posto fisso per aprire una attività in proprio, più adatta alle proprie esigenze. In ogni caso, tutte le indagini portano in questi mesi a un forte aumento da parte dei lavoratori della richiesta di un migliore equilibrio tra vita privata e lavoro e la ricerca di incarichi più mirati e adatti, compatibili con il proprio benessere personale.
Carriera e Yolo Economy
Flessibilità nei tempi di lavoro, migliore conciliazione vita-lavoro e maggiore benessere personale sono anche i motivi che spingono gli italiani a cambiare lavoro e in questi ultimi mesi questa percentuale, anche per via degli effetti della pandemia, appare in deciso aumento. Gli Stati Uniti sono considerati il Paese in cui l’etica diffusa vede prevalere il lavoro su ogni altra priorità e in cui si “vive per lavorare”. La fuga delle nuove generazioni di americani da questo modello, che negli ultimi anni si è esasperato, appare piuttosto motivata. Inoltre, questo fenomeno ha colpito negli Stati Uniti soprattutto le donne impegnate in settori, come quello sanitario, fortemente sottoposti allo stress derivante dal carico di lavoro durante la pandemia. Va anche considerato come molti americani che operano nei settori con maggiore ricerca di personale, come quello informatico, si siano dimessi nella prospettiva di migliorare la propria condizione lavorativa. Anche per via dell’aumento del costo della vita nelle città statunitensi.
Appare invece più interessante capire le motivazioni di questo fenomeno in un Paese come l’Italia che è noto al mondo per l’attenzione dei suoi abitanti alle altre priorità della vita, come la salute e la famiglia e in cui si dice che si “lavora per vivere”. I dati italiani sono chiari e confermano come questo fenomeno tocchi anche il Belpaese. Se il 2021 ha visto un aumento del 38% delle dimissioni volontarie rispetto all’anno precedente, anche il 2022 sembra confermare questa tendenza. Per vederci chiaro dobbiamo riflettere su come queste scelte appartengano a generazioni più giovani, con una scolarità medio alta e riguardino in particolare settori come la sanità, il sociale, la produzione e i servizi, colpiti direttamente dagli effetti della pandemia.
La situazione italiana
La ricerca di flessibilità si unisce in questo caso al desiderio di cambiare luogo di lavoro. E magari di lasciare la città e di trasferirsi in borghi in cui la qualità della vita è migliore. È il fenomeno di quell’auspicato “south working” che nei mesi scorsi, grazie al lavoro a distanza, ha riportato molti giovani lavoratori meridionali nei loro luoghi di origine. Si tratta di una scelta che possono percorrere soprattutto giovani creativi, che operano nel campo della comunicazione o nello sviluppo dei software. Ma che non appare oggi in grado di rispondere alla domanda di tutti coloro che in Italia desiderano cambiare vita e lavoro.
In ogni caso, se analizziamo i dati vediamo come dal 2021 la maggior parte di chi si è dimesso sia giovane (il 70% ha meno di 35 anni), non abbia forti carichi famigliari, lavori nel Nord Italia in settori come l’informatica, il manifatturiero, il marketing e la sanità. Non si può parlare quindi di un fenomeno passeggero. Semmai di una tendenza in preparazione da molti anni e che il Covid, insieme al passaggio generazionale dell’entrata nel mercato del lavoro dei “millennial”, ha fatto esplodere in modo significativo. Siamo quindi di fronte a un cambio di paradigma che va affrontato con politiche e strumenti adatti, che ancora non si vedono.
Cambia la visione del lavoro
Queste migliaia di lavoratori, spesso giovani, non fuggono dal lavoro. Ma da un certo tipo di lavoro che negli ultimi anni è prevalso, insieme a una ben determinata cultura aziendale e manageriale. Se negli Stati Uniti il rifiuto di questo modello risponde all’esasperazione dei ritmi di lavoro e del controllo digitale, insieme alla diminuzione del potere di acquisto della classe media, in Italia il fenomeno appare per certi versi più complesso e unisce diversi fattori. Proviamo allora a mettere in fila queste cause, nella convinzione che possano esserci casi specifici che rispondono a una sola di queste, ma anche che per una valutazione corretta del fenomeno questi elementi vanno visti nella loro combinazione.
Innanzitutto, è in corso nelle nuove generazioni dei Paesi più sviluppati un cambio di paradigma culturale, per il quale la carriera sul lavoro non è vista come prioritaria se avviene nel sacrificio di altri valori, come il benessere psicofisico, la famiglia o il tempo da dedicare a se stessi o agli amici. Il rapporto tra lavoro e benessere è considerato fondamentale e per questo motivo le scelte tendono a preferire la ricerca o di attività di lavoro stimolanti in cui esprimere la propria creatività. O, se questo non è possibile, si cercano impieghi non impegnativi, che consentano però di avere del tempo libero da dedicare alle proprie passioni.
Questo aspetto coinvolge soprattutto la classe media e coloro che hanno la possibilità di poter rinunciare a un lavoro inadeguato senza far crollare il proprio status sociale. Tuttavia, se consideriamo Paesi come l’Italia, il Belgio e la Francia, questo fenomeno si lega anche al fatto che in questi Paesi, per fattori demografici, i giovani sono meno numerosi e accedono a un tenore di vita mediamente più alto, che si unisce all’essere destinatari dei risparmi e dei patrimoni di famiglia (valutati per l’Italia in circa 400 miliardi di euro che saranno trasferiti alle nuove generazioni nei prossimi anni, la cosiddetta “ricchezza attesa”).
Questa maggiore tranquillità economica rende i figli della borghesia produttiva del Centro Nord meno disponibili al sacrificio e più propensi a una scelta di lavoro e di vita basata sulla scelta della qualità e del benessere. Questo fenomeno, secondo diversi sociologi, è inoltre accentuato dal carattere edonistico di questa fase storica e dall’attenuazione dei valori etici legati alla cultura del lavoro. L’uomo del terzo millennio non si vede più come produttore, ma soprattutto come consumatore e la sua reputazione sociale dipende più da quanto può spendere che dal lavoro che svolge.
La necessità di un cambio della cultura manageriale
Questa rinuncia al posto fisso, in particolare in Italia, significa inoltre spesso rinunciare a salari bassi in un ambiente di lavoro molto competitivo e con ritmi esasperati. Questa combinazione, insieme al minor carico famigliare dei giovani, motiva molte dimissioni, soprattutto da parte dei giovani under 35, nella ricerca di qualcosa di meglio. Va quindi preso in considerazione l’effetto perverso di una cultura manageriale che da un lato ha chiesto in questi anni ai lavoratori di impegnarsi al massimo, di dare tutto il possibile e di impegnarsi oltre ogni limite. E che dall’altro non ha investito adeguatamente in termini di maggior reddito, benessere e welfare aziendale. Le generazioni più giovani ritengono spesso che non ne valga la pena, anche in ragione di una cultura manageriale che considera, in molte realtà aziendali, il “burnout” come un passaggio necessario nella carriera e lo stress da lavoro un evento normale.
Le nuove generazioni stanno, quindi, mettendo in crisi una cultura manageriale presente nelle organizzazioni e nelle imprese. Che si è rivelata socialmente insostenibile e che ha determinato un inquinamento relazionale incompatibile con le condizioni minime del benessere aziendale. Questi stili di gestione presenti in tanti luoghi di lavoro, di ogni tipo e in ogni settore, hanno in questi anni incrementato la fragilità emotiva e relazionale dei dipendenti.
Contro la carriera del “toyotismo”
La risposta dei decenni scorsi è stata un modello, che coinvolge ancora molte aziende soprattutto multinazionali, derivante dal “toyotismo” orientale in cui l’impresa chiede al lavoratore il totale sacrificio alle necessità aziendali. Questo “immolarsi” all’azienda, non funziona più in Paesi come il Giappone e gli Stati Uniti. E non è immaginabile che possa funzionare nella cultura europea. Esiste quindi alla base di questo fenomeno un grande tema motivazionale. Lo scarto tra le esigenze di una impresa che chiede “tutto” e un giovane che è disposto a dare “il giusto” appare sempre più grande. Se osserviamo le aziende più produttive e più desiderate per i giovani possiamo considerare come queste aziende siano note non solo per l’attenzione alla formazione, al welfare, alla flessibilità. Ma anche per gli spazi di libertà e di creatività organizzativa concessi ai dipendenti.
Solo se ci si sente liberi sul lavoro si è liberi di dare di più e di scegliere di dare all’azienda qualcosa che vada oltre il dovere. Ed è questo il punto: la strada da percorrere per riportare al lavoro i nostri migliori giovani è la stessa da percorrere per aumentare la competitività. Serve motivazione e non mera incentivazione. Serve l’adesione sincera e volontaria a un progetto in un ambiente in cui il lavoratore si senta vivo e compreso e non un mero strumento. Sono ancora poche le imprese italiane che sanno andare in questa direzione e soprattutto sono ben pochi i manager che sanno guardare oltre ai numeri e motivare davvero i dipendenti.
Ri-motivare i lavoratori
La soluzione, quindi, rispetto a questa generale disaffezione dal lavoro che porta chi se lo può permettere alle dimissioni volontarie nella ricerca di qualcosa di meglio, sta nel rimettere al centro la cultura e la funzione delle risorse umane. Eppure, meno della metà delle aziende italiane ha un ufficio che si occupa di gestione delle risorse umane e in molti casi questa funzione non incide sullo sviluppo delle competenze, sui modelli organizzativi e tantomeno sugli aspetti motivazionali. Questo aspetto costituisce un limite di fondo per una impresa competitiva, in quanto la capacità di attrarre e motivare i talenti è oggi fondamentale. L’economia italiana che arranca e non trova competenze adeguate è quella che guarda ancora a Ford e a Toyota. E ignora che durante il fordismo dell’uomo – macchina, un grande italiano aveva costruito la prima azienda innovativa italiana basandosi sui diversi principi del welfare aziendale, della motivazione e della partecipazione.
Tornare allo spirito di Adriano Olivetti forse ci potrebbe aiutare a rimotivare i lavoratori che fuggono da un lavoro fonte di stress e non di soddisfazione e a riportare a casa i nostri talenti.