di Virna Bottarelli |
Sognava di insegnare educazione fisica, oggi allena la nazionale femminile di pallavolo dell’Iran. Di strada, nel vero senso della parola, ne ha fatta parecchia Alessandra Campedelli, quarantotto anni, nata a Rovereto in provincia di Trento, con un passato da giocatrice di hockey su prato.
La sua storia, professionale e privata, parla di impegno, determinazione e voglia di mettersi alla prova, ma anche di inclusione, resilienza e parità di genere, concetti entrati nel linguaggio comune di chi si occupa di lavoro e risorse umane.
Partiamo dalle origini: che tipo di formazione hai e quali erano le tue aspirazioni professionali?
Mi sono diplomata al liceo scientifico e ho conseguito il diploma Isef (Istituto Superiore di Educazione Fisica). Ho anche ottenuto la maturità magistrale, da privatista, perché la mia aspirazione è sempre stata quella di insegnare educazione fisica nelle scuole. Ho iniziato facendo l’insegnante di sostegno e ho cercato di applicare in questo campo anche le scienze motorie, vedendo effettivamente gli esiti positivi che lo sport ha sulle capacità di apprendimento dei ragazzi. Quando avevo già i miei due figli, ho conseguito la laurea specialistica in Scienze e tecniche dello sport, a Verona, e mi sono iscritta alla facoltà di psicologia, perché vorrei in futuro frequentare il master in psicologia dello sport. Nel 2018, poi, sono finalmente diventata un’insegnante di sostegno di ruolo.
Hai giocato ad alti livelli a hockey su prato e avevi iniziato anche ad allenare. Come sei passata poi al mondo del volley?
Ho giocato a kockey su prato, ho vestito la maglia della nazionale italiana e ho avuto anche un’esperienza da allenatrice, che però ho interrotto quasi bruscamente. Rimasi infatti profondamente colpita dall’aver assistito a un grave incidente occorso sul campo a una ragazzina della mia squadra e non volli più prendere in mano un bastone da hockey. L’incontro con la pallavolo, sempre in quegli anni, è stato piuttosto casuale. Ho conosciuto quello che sarebbe diventato il padre dei miei figli, giocatore e allenatore di volley, e ho iniziato a frequentare l’ambiente. Grazie alla mia formazione e all’esperienza maturata con l’hockey su prato, ho avuto la possibilità di lavorare nei centri di qualificazione regionale e ho potuto fare esperienze preziose accanto a professionisti di alto livello, allenando per diversi anni la rappresentativa regionale femminile trentina e squadre giovanili maschili.
Un’esperienza importante è stata poi quella con la Nazionale Sorde di pallavolo. Come ci sei arrivata?
Il mio secondo figlio, Riccardo, è sordo e ha un impianto cocleare da quando era bambino. Praticava pallavolo fin da piccolo ma è stato quando aveva circa 11-12 anni che sono entrata in contatto con la Fssi (Federazione Sport Sordi Italia). Riccardo viveva da sempre in un contesto di udenti e iniziava a percepire la sua condizione come qualcosa che lo rendeva “più sfortunato” rispetto agli altri. Così ho pensato potesse essergli utile confrontarsi nel contesto sportivo con altre persone sorde. Ho iniziato così ad allenare la squadra di Brescia del Campionato maschile Fssi di pallavolo, dove si è gradualmente inserito anche lui, e da lì è iniziata una nuova esperienza che mi ha portato ad allenare la Nazionale Sorde di pallavolo, dal 2016 al 2021. Sono stati anni importanti per la Federazione, perché abbiamo conseguito ottimi risultati, tra cui un argento alle Olimpiadi del 2017, e per la mia crescita professionale e personale: ho dato molto, ma ho anche ricevuto molto.
Allenando queste ragazze ho fatto miei dei valori che mi tornano utili anche nella vita di tutti i giorni e nella mia professione di insegnante. In particolare, ho imparato a ordinare le priorità. Nel comunicare con le ragazze dovevo scegliere le cose importanti da dire, trovare delle parole chiave ed essere il più chiara possibile. Ho imparato a usare e leggere il linguaggio non verbale e ho appreso anche parte della lingua dei segni, una modalità di comunicazione che con mio figlio, sordo oralista, non avevo mai usato. Si tratta di superare ostacoli e barriere mentali che tante volte non si vedono, ma esistono.
Poi è arrivata la chiamata da Teheran…
Prima della pandemia, Julio Velasco, che conosce la pallavolo iraniana avendo allenato la nazionale maschile dal 2011 al 2014 e con cui ho lavorato nei Centri federali, mi ha indicata come possibile allenatrice della nazionale femminile. La chiamata è poi arrivata un anno fa: ero titubante inizialmente, ma poi la voglia di mettermi alla prova è prevalsa e ho accettato quella che era una vera e propria sfida, considerato che in Iran il modo di vivere delle donne è molto lontano dal nostro.
Stai lavorando in un contesto socioculturale così profondamente diverso dal nostro: come lo stai affrontando?
Cerco di mettere in pratica le competenze di cui parlavo prima: la capacità di superare un ostacolo alla volta, di comunicare oltre le barriere linguistiche e, in questo caso, culturali. A dicembre 2021 sono venuta in Iran per la prima volta e ho avuto un primo approccio a una realtà molto diversa dalla nostra, soprattutto, appunto, per quanto riguarda la condizione femminile. Sono venuta da sola – un eventuale staff avrebbe dovuto essere tutto al femminile, perché in Iran è previsto che le atlete possano essere allenate solo da donne – e fortunatamente ho avuto l’aiuto delle persone che avevano lavorato anche con Julio e che mi hanno fatto un po’ da mediatori culturali. Con le mie giocatrici cerco di basare il rapporto sulla massima chiarezza e trasparenza, ho chiesto loro di non dare nulla per scontato, ma capirsi non è sempre così immediato. Usiamo l’inglese per comunicare ma diverse ragazze non lo parlano.
Cerco di ascoltare i loro bisogni anche calandomi nei loro panni “letteralmente”: ho provato ad allenarle indossando la loro divisa, per sentire sulla mia pelle quali possono essere le loro sensazioni fisiche. Insomma, è un’esperienza che mi sta mettendo alla prova ma dalla quale, sono certa, mi porterò via un bagaglio prezioso di conoscenze e competenze.
La tua storia parla di inclusione, diversità, genere: hai visto crescere la sensibilità verso questi temi negli ultimi tempi?
Per quanto riguarda l’inclusione, posso parlare della mia esperienza come insegnante di sostegno e dire che, purtroppo, la sensibilità verso il tema dipende ancora molto dal contesto familiare e culturale di provenienza del ragazzo in difficoltà. Laddove ci sono famiglie capaci di dare la spinta affinché il proprio figlio o la propria figlia possano condividere esperienze di vita a prescindere dalla propria condizione di svantaggio, allora sì, l’inclusione si realizza. Abbiamo sicuramente fatto dei progressi, ma credo che la nostra scuola e le nostre istituzioni non siano ancora attrezzate per sopperire alle carenze delle famiglie che non hanno gli strumenti, culturali ed economici, per far fronte alla situazione.
Sulla parità di genere, invece, dal mio punto di vista di allenatrice che ha anche allenato squadre maschili, posso dire che è ancora diffusa la convinzione che per una donna sia più difficile gestire un gruppo, magari solo perché ha un approccio apparentemente meno “forte” e “urlato” rispetto a un allenatore maschio. Per questo, ad alto livello, le donne allenatrici sono ancora poche, non certo perché non ce ne siano di preparate.
Quali sono le competenze che hai appreso come sportiva e che pensi siano fondamentali in qualsiasi ambito professionale?
Personalmente, l’essere una sportiva mi ha aiutato in tutti gli ambiti della vita, mi ha insegnato a pormi obiettivi e ad alzare sempre un po’ l’asticella. Lo sport insegna a relazionarsi con gli altri e a essere flessibili e la flessibilità è una componente fondamentale, che permette di ricostruirci ogni volta, indipendentemente dalla professione che si svolge. Si affina inoltre una capacità di analisi, molto importante anche in ambito lavorativo: alla fine di ogni stagione sportiva si esamina quello che ha funzionato e quello che non ha funzionato, si rivedono le sconfitte e anche le vittorie, per capire che cosa ha determinato le une e le altre, e che cosa si sarebbe potuto o dovuto fare di diverso. Infine, può sembrare una considerazione banale, ma forse in tanti ambiti lavorativi non lo è, lo sport insegna a mettersi a disposizione degli altri e a lavorare in squadra.
Chi è Alessandra CampedelliNata a Rovereto nel 1974, Alessandra Campedelli è stata una giocatrice di hockey su prato e ha collezionato 56 presenze in nazionale, dal 1992 al 1996. È stata selezionatrice della rappresentativa trentina di pallavolo e ha lavorato per club come Trentino Volley e Verona Volley. Dal 2016 al 2021 ha allenato la Nazionale Sorde di Pallavolo, con la quale ha conquistato un argento alle Olimpiadi del 2017, un oro ai Campionati Europei nel 2019, un argento ai Mondiali del 2020 e, con la nazionale U21, un argento agli Europei 2018. Da gennaio 2022 guida la Nazionale femminile dell’Iran. Ha due figli pallavolisti: Nicolò, 22 anni, milita in Superlega, da quest’anno nella Gas Sales Bluenergy Volley Piacenza, e Riccardo, 20 anni, che gioca in serie A3 nella Diavoli Rosa di Brugherio e ha vinto due medaglie di bronzo con la Nazionale Sordi, ai Mondiali del 2021 e alle Olimpiadi del 2022. |