di Ludovica Franchini |
L’autunno è la stagione in cui le oche compiono la loro migrazione verso sud. Se avrete la fortuna di osservarle in volo, noterete la tipica forma a V dello stormo. Gli studi hanno dimostrato che questa disposizione facilita l’aerodinamicità, aumentando del 70% la potenza che ciascuna oca avrebbe da sola. Se le oche davanti, che fungono da apripista, rallentano, le colleghe nelle retrovie, starnazzano per incoraggiarle e, nel caso siano troppo stanche, le sostituiscono. In questo modo tutte le oche raggiungono mete che individualmente non riuscirebbero a raggiungere. Ecco, fossimo tutti oche avremmo sempre ottime performance e massimi risultati!
La pigrizia sociale
Eppure l’esperienza ci dimostra che non sempre è così. Perché? Maximilien Ringelmann, ingegnere agricolo francese, scoprì attraverso il gioco del tiro alla fune, il fenomeno della pigrizia sociale, ossia quando la dinamica di gruppo va a scapito fino del 50% del potenziale individuale. Lui osservò che se due persone individualmente, alla massima potenza, riuscivano a tirare 10, insieme arrivavano solo a 15 e non a 20. L’effetto Ringelmann evidenzia inoltre che più il gruppo è numeroso, meno saranno produttivi i singoli individui.
Quindi il concetto “l’unione fa la forza” non è sempre vero, a prescindere. Perché funzioni occorre trasformare il gruppo in squadra, alimentando il senso di appartenenza e allo stesso tempo riconoscendo a ciascun componente il suo valore individuale. Per fare questo serve una guida, un buon leader, una figura capace di creare coesione e conduzione, creando l’effetto oche. Il gruppo esiste quando gli individui percepiscono il sentimento del “noi”, inteso come un’entità collettiva in cui ciascuno può riconoscersi e rispecchiarsi, condividendo ideali comuni, sentendosi protetto e sicuro.
Il fattore critico parlando di gruppo, è l’esperienza di un destino comune, vista come espressione dell’interdipendenza tra individui, il cui influenzamento reciproco avviene in un gioco di equilibrio tra l’adattarsi agli altri e far adattare gli altri a sé. In questa prospettiva, il lavoro di gruppo è un fare insieme, caratterizzato da vincoli di tempo e spazio e comprende la pianificazione del compito, lo svolgimento e la gestione delle relazioni, l’aspettativa di ottenere un risultato diverso da quello che ciascuno potrebbe produrre.
Leader si nasce, ma lo si può anche diventare
La leadership è la funzione che bilancia “membership” (rappresentazione mentale che permette di identificare il gruppo come opportunità di soddisfazione di bisogni) e “groupship” (funzione di soddisfazione dei bisogni del gruppo), garantendo e presidiando sia la soddisfazione dei bisogni individuali sia quelli di gruppo. Partendo dall’assunto di base che leader si nasce, ma lo si può anche diventare, Edwin Hollander sostiene che per diventare leader, il primo passaggio sia il conformismo iniziale: ci si deve adeguare alle regole, prima di poterle cambiare.
Inoltre, il leader dovrà mostrare la propria competenza ai membri del gruppo, così da acquistare un potere di influenza che si caratterizza per la sua legittimità. Infine, identificandosi con il gruppo, con i suoi obiettivi e con le aspettative dei suoi membri acquisisce credibilità, fiducia, stima e riconoscimento. Il leader legittimato è il fulcro, il punto di snodo tra l’organizzazione, l’individuo e il gruppo; è colui che aiuta la singola persona a integrare i propri obiettivi con la cultura organizzativa, che egli stesso perpetua, contribuendo alla costruzione di una visione comune nei comportamenti del gruppo sui propri compiti, obiettivi e processi; è colui che sa trasformare un gruppo in squadra.
* Ludovica Franchini è Psicologa del Lavoro.