Secondo i dati del Dipartimento del Lavoro degli Stati Uniti, ad agosto 2021 è stato raggiunto il valore record di 4,6 milioni di dimissioni volontarie e nel 2022 il numero è rimasto invariato. In Francia, il tasso si è attestato sul 2,7% a inizio 2023, mentre in Spagna circa 70mila lavoratori con contratti a tempo indeterminato hanno rinunciato al loro impiego.
E in Italia? Secondo Randstad, il 29% dei lavoratori italiani starebbe cercando attivamente un nuovo impiego. A livello globale, il nostro Paese è al terzo posto della classifica rispetto a questo indicatore. A trainare l’esodo sono i lavoratori più giovani. La percentuale di persone che sta cercando un nuovo impiego, infatti, sale al 38% se si considera solo la fascia d’età compresa tra i 25 e i 34 anni.
Il fenomeno delle dimissioni volontarie è ancora più evidente tra i lavoratori della Generazione Z. Nel Bel Paese, nel 2022 sono state registrate quasi 1,7 milioni di dimissioni volontarie in 9 mesi (dati sulle comunicazioni obbligatorie del Ministero del Lavoro). Un aumento del 22% rispetto allo stesso periodo del 2021.
Sarà dunque per un mercato del lavoro che diventa più dinamico, per una scelta di vita diversa o per le conseguenze della crisi, ma il fenomeno cresce e si fa trasversale.
Dalle dimissioni volontarie al lavoro autonomo
Tra le ragioni che portano le persone a dare le dimissioni, emergono l’esigenza di lavorare in una realtà più flessibile (32%) e il desiderio di avere incarichi più soddisfacenti (27%). Non solo, più del 40% degli intervistati ha sottolineato che l’etica e i valori dell’azienda devono risuonare con i propri. Mentre il 36% ha dichiarato di apprezzare le opportunità di apprendimento continuo. Soprattutto, ci sono l’equilibrio tra lavoro e vita privata (51%) e le opportunità di avanzamento di carriera (43%).
Questo fenomeno ha trovato inoltre una parziale risposta nell’aumento delle figure dei freelance. Lavoratori indipendenti dotati di partita iva con differenti adempimenti normativi e burocratici a seconda del regime fiscale di appartenenza. Istat ne stima 190.000, numero in costante crescita.
Sei categorie professionali raccolgono più del 90% dei freelance:
- consulenza gestionale (22%);
- consulenza informatica (21%);
- spettacolo & intrattenimento (16%);
- grafica, arte e design (16%);
- marketing & pubblicità (10%);
- fotografia & videomaker (8%).
Nella maggior parte dei casi, tali professionisti non hanno alcuna copertura assicurativa. Non vi sono obblighi normativi in merito, viene infatti demandata all’iniziativa del singolo.
Perché valutare una copertura assicurativa
La modalità di lavoro freelance offre certamente molti vantaggi ma, al contempo, porta a una concreta esposizione al rischio. Si pensi alla mancanza di copertura del sussidio di disoccupazione Naspi. Oppure all’imprevedibilità delle entrate, alla possibile tassazione elevata e alla preoccupazione di non riuscire a risparmiare abbastanza o di accumulare fondi per la pensione. Pertanto, il lavoratore autonomo dovrebbe dotarsi di strumenti di tutela adeguati. Ovvero di prodotti assicurativi di copertura ad hoc dell’attività stessa e dei cosiddetti add-on da aggiungere alla responsabilità civile professionale principale.
Si pensi per esempio ai danni involontariamente causati collaborando con i propri clienti e alla conseguente richiesta di ingenti risarcimenti. Ad attacchi ai propri dispositivi informatici oppure a un infortunio che può tenere il professionista lontano dal lavoro, minando la sua unica fonte di reddito. La mancanza di una cultura assicurativa radicata nel nostro Paese potrebbe aumentare tale esposizione al rischio. Proprio come tutti gli altri lavoratori, infatti, anche i freelance non sono esenti dai rischi connessi al normale svolgimento della propria attività. Pertanto, è importante che valutino di tutelare la propria professione.