di Giovanni Scansani |
Dopo aver esaminato, nel primo e precedente intervento, il quadro generale nel quale si trova inserita l’attuale fase di sviluppo del lavoro agile, in questa seconda e conclusiva parte la trasformazione dei processi produttivi ed organizzativi, nei quali si inserisce lo Smart Working, è affrontata dall’angolo visuale delle premesse dalle quali partire per la progettazione del lavoro (realmente) agile.
Per il successo di questo ridisegno organizzativo una “leva” vincente sembra essere quella della partecipazione “diretta” dei lavoratori. Ciò anche in considerazione del fatto che il lavoro agile sembra contenere in sé proprio una matrice partecipativa (1) dalla quale poter muovere per immaginare che le nuove modalità della prestazione lavorativa possano associarsi a maggiore produttività e a un rinnovato significato del lavoro che, sul piano dell’autorealizzazione delle persone, diventi capace di farne riscoprire anche il senso.
Cosa occorre e dove approdare
Quella in atto può essere definita come una trasformazione “fisica” delle organizzazioni. Si sta passando da uno stato “solido” (fatto di organizzazione verticale, fortemente gerarchica, basata sul comando-controllo fordista, la centralità dell’execution, la scarsa richiesta di apporto cognitivo delle persone e una perdurante burocratizzazione del lavoro con mansionari, organigrammi, scarsa comunicazione e separazione stagna tra i team) ad uno stato “liquido” nel quale le organizzazioni sono sempre più orizzontali e “diffuse” anche nella loro leadership, oltre che nella condivisione delle responsabilità.
Il che favorisce l’attivazione di più marcate valorizzazioni delle soggettività (anche tramite crescenti spazi di discrezionalità operativa), dove il lavoro “per fasi, cicli ed obiettivi” (come recita l’art. 18 della legge 81/2017) si associa, da un lato, alla propensione allo “s-viluppo” (letteralmente l’eliminazione di viluppi: qui sono quelli procedurali e burocratici dei vecchi schemi organizzativi) del “capitale umano” attraverso maggiori reciprocità (ad esempio tramite policy di scambio “sociale” rese più robuste mediante piani di welfare aziendale) e ampliamento della delega. Il che, a sua volta, porta con sé l’affermazione di contesti fiduciari nei quali si può esprimere un maggiore apporto individuale “integrale”, ottenere più commitment e favorire la creazione di maggiore valore condiviso tra le parti (manager e lavoratori e più in generale per i restanti stakeholder dell’impresa, perché la qualità del lavoro si riflette sempre in quella dei prodotti e dei servizi poi offerti sul mercato).
Strutturare il lavoro agile
È anche su queste premesse che diventa possibile progettare un lavoro basato su team “autonomi”, orientati al problem setting, oltre che al problem solving, alla gestione dei controlli e alle pratiche di miglioramento continuo. Si tratta di contesti improntati a una cooperazione ampia e allargata (tra persone, funzioni e gruppi di lavoro) caratterizzata da crescente condivisione delle conoscenze, da comunicazione frequente, allargamento delle relazioni, polivalenza e polifunzionalità di persone sempre più professionalizzate.
Come vedremo meglio nel prosieguo, questa trasformazione è idonea alla maturazione di contesti caratterizzati da gradi crescenti di partecipazione organizzativa (cosiddetta “diretta”) dei lavoratori alla nuova organizzazione del lavoro. A tale partecipazione, del resto, fa spesso da apripista, quando non sia con essa già stata posta in sinergia, quella partecipazione economica che si esprime nella diffusione dei premi di risultato tra l’altro associabili, quanto agli indicatori di misurazione previsti dalla normativa vigente, anche allo stesso smart working. Oltre che convertibili, a determinate condizioni, in servizi di welfare aziendale che possono rafforzare l’outcome di una migliore conciliazione vita-lavoro che può derivare dallo smart working ben progettato.
La premessa della riprogettazione organizzativa, perché questa possa mantenere le sue promesse, dovrà essere non solo condivisa con chi, poi, dovrà quotidianamente animarla. Ma dovrà partire dal desiderio e soprattutto dalla capacità di tutti (manager e lavoratori) di ridefinire il proprio mindset culturale lungo un percorso che riguarda la leadership non meno che della followership. La leadership, in particolare, diventa qui espressione di un’autorevolezza che supera l’esercizio della “semplice” autorità gerarchica e si fa manifestazione di una capacità di creazione e animazione di relazioni, di generazione e di liberazione di saperi e di dotazioni che rendono il manager dei nuovi contesti lavorativi un leader-coach in qualche misura “eretico” (rispetto alla sua tradizionale immagine) e certamente “post-eroico”. Ossia non più “solo al comando”, ma al centro di rapporti tra persone e team dei quali sarà un enabler indispensabile. Ancorché nel quadro di deleghe e spazi di discrezionalità operativa (se non proprio autonomia) riconosciuti ai singoli e ai gruppi in misura crescente.
Il ruolo aperto
Il sistema socio-tecnico dell’impresa si avvia così al passaggio dalle “mansioni” (standardizzate e burocratizzate) ai “ruoli aperti” (2). Ciò presupporrà lo sviluppo, da parte di ciascuno, di un’accresciuta “personalità organizzativa”. Perché lavorare in maniera agile (condividendo obiettivi e misurandosi, anche sul piano retributivo, con i risultati apportati) non è una condizione innata. E non tutti sono sùbito pronti a ridefinire la propria attività nei termini richiesti dalle innovazioni organizzative e da quelle tecnologiche che le sostengono.
Del resto è proprio l’interpretazione del “ruolo aperto” (e non la mera esecuzione di una mansione) che consente di immettere nel lavoro tecnologicamente aumentato quelle immaterialità (come engagement, dedizione, intelligenza, creatività, motivazione, passione) che il contratto di lavoro formale (per definizione, su questi aspetti, sempre incompleto) non consente di “acquistare”. Non per caso, nei nuovi contesti organizzativi c’è riscoperta dell’importanza del “contratto psicologico” e spinta alla creazione di dinamiche e di policy di people management che vanno oltre il solo scambio economicistico.
Come avvertiva già nel 2002 il sociologo Manuel Castells, il lavoro “4.0” ci dice che “l’automazione accresce straordinariamente l’importanza dell’input cerebrale umano nel processo lavorativo” perché maggiore è la portata della tecnologia, “maggiore è il bisogno di lavoratori autonomi, istruiti, capaci di programmare e decidere intere sequenze del lavoro” (3). E dunque a macchine sempre più autonome devono corrispondere persone sempre più autonome, cioè più “smart” e questi sono anzitutto i “lavoratori partecipi”, ossia i lavoratori consapevoli delle necessità di cambiamento e quindi capaci (e desiderosi) di ripensarsi nell’innovazione organizzativa.
È qui che si manifesta quel passaggio verso un più pieno apporto cognitivo di ciascuno (anche come funzione innovatrice del lavoratore). E verso la condivisione realizzativa di progetti basati su obiettivi che misurano il lavoro per i risultati che è capace di generare, più che per la fisica presenza intesa come la messa a disposizione del proprio tempo e delle proprie energie lungo un arco temporale ed in un luogo prefissato, nonché sulla base di mansioni proceduralmente predefinite.
Il ridisegno organizzativo
Lo smart working – lungi dall’essere una profezia che si autoavvera – neppure può generare, di per sé, nuovi modelli organizzativi e nuove regole del lavoro perché a ciò basterebbe l’effetto disruptive dell’innovazione tecnologica. Al contrario, per il pieno sfruttamento delle più innovative soluzioni, esso presuppone un previo e complesso ridisegno dell’impresa. Una vera e propria attività di progettazione che sappia ricombinare tra loro organizzazione, lavoro e tecnologia per ottenere maggiore produttività e qualità del lavoro (e della vita).
Le trasformazioni realizzabili con il ridisegno organizzativo, tuttavia, non potranno omettere di considerare che gran parte delle imprese sono state sin qui concepite sulla base della condivisione umana degli spazi e di buona parte dei tempi del lavoro. Le aziende sono (e restano) reti di persone prima che reti di connessioni informatiche e sono fatte di relazioni umane che le persone tessono ogni giorno soprattutto all’interno dei (e grazie ai) luoghi (fisici) di lavoro. Da questo derivano l’accumulazione e l’accrescimento del valore di quel preziosissimo “capitale” immateriale – sociale ed umano – la cui preservazione, come il cui sviluppo, possono essere messi a repentaglio da errate impostazioni dello smart working. In questo senso “nel lavoro agile è ancora più decisiva la relazione, il lavoro di gruppo, la capacità di coordinamento con gli altri” (4).
Il lavoro smart è “partecipato”
Se si vuole accrescere il valore del ruolo del lavoro si deve prendere atto – come evidenziava Federmeccanica nel 2018 nel suo documento programmatico intitolato “Impegno” – della necessità di un nuovo umanesimo del lavoro e che “le grandi trasformazioni […] nascono dal basso […] attraverso il coinvolgimento”. E che, nel nuovo scenario del lavoro, “l’elemento caratterizzante è la cooperazione”, con l’ulteriore conseguenza che occorre decisamente “portare in azienda la partecipazione”.
Questo approccio è presente anche in un significativo passaggio delle nostre relazioni industriali. Con il “Patto per la Fabbrica” del 9 marzo 2018, le tre principali confederazioni dei rappresentanti dei lavoratori, insieme a Confindustria, si sono poste tra i comuni obiettivi proprio la realizzazione di forme di partecipazione immaginando contesti lavorativi nei quali l’apporto e l’ingaggio cognitivo, associati all’expertise dei lavoratori, possano essere più decisamente valorizzati nella ricerca di una maggiore produttività e competitività (5). Una partecipazione espressa in questi termini è ormai considerata strategica ed è del tutto sganciata da precedenti e superate letture politiche dell’istituto.
Introdurre meccanismi partecipativi in azienda è un’esigenza oggettiva che interessa direttamente l’impresa in quanto condizione indispensabile per il suo sviluppo. Per i datori di lavoro più avveduti, infatti, la partecipazione rappresenta un fattore di competitività che non pregiudica un’efficiente conduzione aziendale. Al contrario la favorisce, oltre a presentarsi come coessenziale alla ridefinizione dei contesti organizzativi alla luce dell’implementazione di tecnologie che sempre di più implicano un incremento dell’apporto cognitivo dei lavoratori.
Così come interessa anche i lavoratori. Perché il lavoro “partecipato” è lavoro di qualità ed è lavoro “buono”, nel quale l’apporto soggettivo si fa pieno e del quale si riscoprono i contenuti in un quadro di “cooperazione intelligente” che “non è il mezzo per cambiare il lavoro, come molti imprenditori e manager sembrano credere, ma è il risultato e la prova del lavoro che cambia” (6). Lo smart working, tramite la strutturazione dell’accordo individuale sul quale si fonda, sembra consentire che il lavoratore possa, in qualche misura, diventare contitolare di una ridefinita condizione di collaborazione in azienda. Nella previsione che esclude la possibilità di una determinazione unilaterale da parte del datore di lavoro si aprono spazi di co-progettazione (e quindi di partecipazione) per definire le modalità di esecuzione della prestazione, i suoi contenuti e i suoi obiettivi.
Conoscenze e relazioni
Partecipazione e autentico smart working, accrescendo la “generatività” del lavoro e una più piena espressione (umana e professionale) della persona, quindi elevando la dignità del lavoratore, incidono sul suo “bene-essere”. Andando ben oltre le finalità di work-life balance attribuite all’istituto dalla vigente disciplina, mirando a favorire, altresì, anche un miglioramento economico (il “bene-avere”) della condizione dei lavoratori frutto del miglioramento delle performance dell’impresa. A loro volta funzione anche dei risultati sui quali gli smart worker sono misurati.
Nel rapporto tra lavoro agile e partecipazione s’inserisce, poi, l’idea che una delle finalità di entrambi gli istituti non possa che essere la realizzazione di un lavoro più libero e liberatorio. Ossia capace di slegare dalle rigidità dei tradizionali silos organizzativi due risorse oggi sempre più essenziali: le conoscenze e le relazioni. Una maggiore circolazione e condivisione di informazioni e saperi crea più partecipazione e quest’ultima, a sua volta, presuppone anche rinnovate relazioni basate su fiducia e cooperazione tra i singoli lavoratori e i manager cui fanno riferimento. Il che è la cifra non solo della partecipazione “diretta” all’organizzazione del lavoro, ma anche della corretta strutturazione dello smart working.
Di più: è la radice della feconda idea di un lavoro realmente motivante e significativo, quindi capace, pur immersi nell’onlife di mille web-call e di pervasive innovazioni tecnologiche, di farci ogni giorno persone più vere.
NOTE DELL’AUTORE(1) “Nell’idea del lavoro agile c’è già, in embrione, l’idea della partecipazione del lavoratore alla gestione e al rischio dell’impresa”. Così Pietro Ichino, Lo smart working e il tramonto della summa divisio tra lavoro subordinato e autonomo, Lavoro, Diritti, Europa. Rivista nuova di diritto del lavoro, 1, 2021. Ma in tal senso si veda anche Tiziano Treu (La sperimentazione, non la legge lo renderà strutturale, Newsletter di Nuovi Lavori, 265, 10 novembre 2020) per il quale le implicazioni dello SW “riguardo ai tempi e ai luoghi di lavoro si prestano bene a essere affrontate e gestite con forme partecipative dirette dei lavoratori, come quelle riconosciute e incentivate dal nostro legislatore nella regolazione dei premi di produttività e del welfare aziendale”. (2) Su questo aspetto si vedano i numerosi e basilari contributi di Federico Butera. Tra i più recenti: Le condizioni organizzative e professionali dello smart working dopo l’emergenza: progettare il lavoro ubiquo fatto di ruoli aperti e di professioni a larga banda, Studi Organizzativi, 1, 2020 e Organizzazione e società. Innovare le organizzazioni dell’Italia che vogliamo, Marsilio, Venezia, 2020. (3) Manuel Castells, La nascita della società in rete, p. 279, Egea Università Bocconi Editore, Milano, 2002. (4) Marco Bentivogli, Indipendenti. Guida allo smart working, p. 11, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli, 2020. (5) Lungo questo solco il Ccnl del settore metalmeccanico, tradizionalmente caratterizzato da meccanismi di bilateralità e di partecipazione indiretta, con il suo recente rinnovo si è ora più decisamente orientato anche verso “iniziative di coinvolgimento e partecipazione dei lavoratori nell’impresa” (art. 10). E ciò attraverso la possibilità sia di avviare sperimentazioni di questa prassi, sia con la sottoscrizione, su base volontaria nelle singole aziende, di un “Protocollo sulla partecipazione”. Si è così preso atto che il nuovo modo di lavorare “presuppone una continua interazione tra i diversi livelli aziendali ed una piena collaborazione di tutte le parti” e che operare in team e nei gruppi di lavoro significa “dare un contributo per realizzare insieme, come squadra, quel valore aggiunto che il singolo da solo non sarebbe in grado di apportare”. Il modello sperimentale di partecipazione mira così alla “condivisione di soluzioni e processi a monte, fin dall’inizio, per riuscire poi nel prosieguo a risolvere i problemi e a cogliere le opportunità in maniera immediata e tempestiva”. (6) Aris Accornero, Era il secolo del lavoro, Il Mulino, Bologna, 2007 (pp. 131, 132). |
Giovanni Scansani è Corporate Welfare Advisor e docente a contratto presso l’Università Cattolica di Milano.