di Luigi Beccaria |
Lo scorso mese di marzo, insospettito dalla solerte rapidità con cui un collega produceva articoli di natura divulgativa e già messo sull’attenti da qualche contributo analitico presente sul web o sui giornali, come colto da un’improvvisa rivelazione ho pensato di “squarciare il velo” e provare il celeberrimo sistema di cosiddetta intelligenza artificiale generativa denominato ChatGpt.
Nel momento in cui scrivo (circa un mese dopo tale “rivelazione”, di cui presto darò conto), essendo la situazione in rapida evoluzione, l’applicazione in questione è stata per così dire “disinnescata” da un provvedimento (al momento senza eguali in Europa, ma, come dicevo, la situazione è assai fluida) del Garante per la Privacy. A prescindere da quali strumenti giuridici utilizzerà OpenAi (ossia la società che ne è titolare) per rendersi compliant alla normativa contenuta nel Gdpr (o meglio: all’interpretazione che ne ha dato il Garante italiano), è evidente che tentare di bloccare uno strumento così rivoluzionario con un provvedimento giuridico ha più o meno lo stesso effetto di fermare l’oceano a mani nude. Per cui, a prescindere dallo status giuridico che avrà ChatGpt al momento di pubblicazione del presente contributo, credo che alcune considerazioni debbano essere fatte.
E credo che abbia più senso farle, più che da una prospettiva generale e sociologica, dal mio specifico angolo visuale, ossia quello di un giovane (relativamente, avendo passato i trent’anni e con già qualche capello bianco) professionista intellettuale (segnatamente avvocato: il che forse spiega anche i prematuri capelli bianchi di cui sopra).
Argomentazioni e considerazioni su ChatGpt
La prima reazione, inutile negarlo, è stata quella di assoluto terrore. Avendo dedicato gran parte della mia esistenza allo studio, e gli ultimi anni al faticoso procedimento di conversione di quanto appreso nella produzione, diciamola in senso largo, di contenuti di carattere intellettuale, ed essendo per natura assolutamente non incline al lavoro manuale, vedere che un’intelligenza artificiale produceva in pochi minuti, e in modo quasi indistinguibile dal punto di vista qualitativo, validi output testuali originali in risposta a quesiti che vengono quotidianamente posti dai clienti, non poteva che instillare in me una sorta di revanshismo neoluddista.
Ripeto, parlo di una reazione istintiva, relativa esclusivamente alla mia personale posizione di professionista intellettuale (sebbene, avendo una decennale carriera accademica alle spalle, non ho potuto fare a meno di chiedermi quali saranno, ad esempio, i riverberi sulle tesi di laurea degli studenti, che però già da tempo hanno subito un ridimensionamento quanto a importanza). Dunque anche le riflessioni che tenterò di sintetizzare di seguito avranno questo specifico focus.
Innanzitutto, al di là dello shock iniziale, già dall’indomani ho avuto modo di mitigare il senso di allarme. Stimolato in più modi, ho potuto accertare che ChatGpt è tutt’altro che infallibile (e tra l’altro la vetustà e l’inesattezza di alcune informazioni da esso provenienti ha costituito uno dei motivi addotti dal Garante nell’emissione del suo provvedimento). Ma questa non può costituire un’argomentazione definitiva, perché è evidente che i progressi tecnologici ne diminuiranno gradatamente la fallibilità.
Una considerazione che può attenuare le preoccupazioni è quella secondo cui, allo stato dell’arte, ChatGtp è in grado di sostituirsi, con evidente risparmio di tempo, alle prestazioni intellettuali di carattere più fungibile (nel mio caso, ha efficacemente redatto delle credibili contestazioni disciplinari per assenza ingiustificata), ma è ben lontana dal poter mettere insieme riflessioni e sviluppi argomentativi di decine di pagine (quanto servirebbe, ad esempio, per scrivere un atto giudiziario).
Così come è evidentemente, almeno allo stato attuale, inidonea a sostituirsi al professionista intellettuale nella fase prodromica a quella giudiziale. Ossia nella sequenza di proposte e controproposte che costituiscono la trattativa volta a prevenire il contenzioso, dipendendo infatti le reciproche posizioni da numerosi fattori, “umani, troppo umani” che un’intelligenza artificiale non può conoscere nel caso concreto. Si pensi per esempio a un rapporto interpersonale tra datore di lavoro e lavoratore che abbia un’acredine che può giustificare distacchi anche significativi da quello che sarebbe il “punto di equilibrio” calcolabile da un’intelligenza artificiale.
Inoltre, credo che sia necessario rassicurarci (sempre parlando in qualità di professionista) anche sul contributo di ChatGtp nella stesura di atti più “seriali” (redazione di contestazioni disciplinari o lettere di assunzione). Giacché qualsiasi professionista, o a maggior ragione qualsiasi studio che sia modernamente organizzato, ha già dei form di base che vengono modificati nelle parti interessate. Ad esempio, l’inserimento di una voce che attribuisce un premio specifico vincolato al raggiungimento di un determinato obiettivo da parte del lavoratore, modificando così un contratto di lavoro che per il resto sarebbe assolutamente “basico”.
Uno strumento potente, che non va demonizzato
Il messaggio che voglio inviare, in sintesi e in definitiva, è il seguente. Sì, l’intelligenza artificiale generativa è uno strumento assai potente, che merita, e anzi necessita, di un intervento legislativo (e non certo di provvedimenti tampone provenienti da enti terzi), possibilmente condiviso a livello europeo. Allo stato attuale, considerate le sue caratteristiche come brevemente tratteggiate, non può e non deve essere visto come l’“ordigno fine di mondo” di kubrickiana memoria.
Trovo invece più utile e costruttivo, in attesa di sospirate regolamentazioni comuni e uniformi che mirino a contemperare l’inevitabile progresso tecnologico con la salvaguardia occupazionale, vedere ChatGpt (e i suoi successori e competitor) come uno strumento di ausilio e di integrazione. Non come la “moira nera” che pone fine alla lunga epoca degli esperti della scientia juris.
Luigi Beccaria è avvocato ed è partner di Studio Elit. Collabora con l’Università degli Studi di Milano e con l’Università Cattolica del Sacro Cuore.