Come si lavora in Europa

Con Daniela Rondinelli, eurodeputata e membro della Commissione Lavoro e Affari Sociali del parlamento europeo, una panoramica sulle tematiche più urgenti che interessano lavoro e occupazione in Italia e Ue

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di Virna Bottarelli |

A giugno saremo chiamati a rinnovare il Parlamento europeo, che conclude una legislatura intensa.

Dal 2019 a oggi l’assemblea di Strasburgo ha infatti dovuto fronteggiare eventi eccezionali e dalle ricadute drammatiche, in termini umani ancora prima che economici, come la pandemia e l’invasione russa dell’Ucraina. Ma ha anche approvato direttive e regolamenti importanti sui temi del lavoro e dell’occupazione. Ce ne parla Daniela Rondinelli, eurodeputata e membro della Commissione Lavoro e Affari Sociali dell’organo legislativo dell’UE.

Come si è mosso in questi anni il Parlamento Europeo nella sfera del lavoro e dell’occupazione?

La IX legislatura è stata caratterizzata da un maggiore protagonismo del Parlamento europeo. Non solo ha dovuto rispondere in tempi rapidi a due eventi eccezionali, come la pandemia e l’invasione russa dell’Ucraina, ma ha anche presentato importanti iniziative legislative e approvato direttive dalla portata storica nel mercato del lavoro e dell’occupazione.

Come componente della Commissione Lavoro e Affari Sociali mi sono occupata a lungo della direttiva “Salari minimi adeguati”. Una battaglia politica e parlamentare, ma anche personale, che ha posto le basi per un approccio nuovo delle istituzioni europee ai problemi del mercato del lavoro. Con questa legge, nata con lo scopo principale di combattere gli squilibri del mercato unico, generati dal dumping salariale e sociale, il Parlamento europeo si è posto l’obiettivo di frenare il fenomeno delle delocalizzazioni di tipo predatorio, ossia legate al taglio del costo del lavoro. E di arginare il lavoro povero e precario tutelando milioni di lavoratori e lavoratrici. Si è così compiuto un passo decisivo per un maggiore coinvolgimento della politica europea in un ambito, quello del lavoro e dell’occupazione, principalmente di competenza dei governi nazionali.

In particolare, l’approvazione della direttiva ha rappresentato l’inizio di un cambiamento reale, nell’interesse dei cittadini e delle cittadine, dei lavoratori e delle lavoratrici e delle imprese dell’UE. Un cambiamento volto alla costruzione di un nuovo modello economico di sviluppo dell’Europa dei 27, in cui si rafforza la dimensione sociale dopo gli anni della crisi economico-finanziaria del 2008 che tra tagli, austerità e rigorismo di bilancio portarono la disoccupazione a livelli da record e indebolirono la qualità del lavoro.

Oltre alla direttiva sul salario minimo, quali altre misure adottate dal Parlamento sono particolarmente significative?

Sono state approvate anche la legge europea sulla trasparenza retributiva e la parità salariale. La Strategia Salute e Sicurezza negli ambienti di lavoro post 2020, la direttiva sui lavoratori delle piattaforme, il riconoscimento del diritto alla disconnessione, il reddito minimo e la Due Diligence. Nonché la riforma dei comitati aziendali europei e i provvedimenti sulle condizioni dei lavoratori domestici, migranti e transfrontalieri.

Ovviamente c’è ancora tanto su cui lavorare e restano delle criticità legate al modello di governance economica e politica dell’Unione europea. Un modello anacronistico, inadatto a rendere l’Europa più resiliente ed efficiente come invece dovrebbe essere in un contesto internazionale in rapido mutamento. Le riforme del Patto di Stabilità e Crescita, della governance e del Semestre europeo, quindi, sono fondamentali per affrontare al meglio le sfide che ci attendono anche nella sfera del lavoro e dell’occupazione. La quale più di altre sarà investita dalle transizioni digitali ed ecologica.

In che modo il mercato del lavoro italiano si differenzia da quello degli altri Paesi europei, sempre che sia possibile fare confronti tra realtà diverse per storia e tessuto imprenditoriale?

Credo che non sia possibile fare confronti oggettivi. Sicuramente il nostro mercato del lavoro ha dei limiti oggettivi su cui i decisori politici devono intervenire, soprattutto oggi, in un contesto iper-globalizzato e alle prese con le transizioni digitale ed ecologica. Tra i diversi aspetti, c’è un primo limite legato alla formazione professionale, compresa quella continua. E alle Politiche Attive per il Lavoro, tuttora carenti, ma fondamentali per portare avanti l’up-skilling e il re-skilling dei lavoratori e delle lavoratrici. Una seconda lacuna non a caso riguarda i livelli salariali inferiori alla media europea e stagnanti da 30 anni, a causa di insufficienti o assenti politiche redistributive e retributive.

Qual è il Paese europeo con il mercato del lavoro più attrattivo per i cittadini di altri Stati e perché?

Considerando i meccanismi che regolano l’ingresso dei giovani nel mercato del lavoro, i livelli salariali – sostenuti anche dal salario minimo – le politiche attive e la forza della contrattazione collettiva in un tessuto industriale tra i più ricchi, direi la Germania. Lo mostrano statistiche e dati, ma aggiungo che il mercato del lavoro tedesco si sostenta anche e soprattutto grazie al mercato unico europeo. Concorrenza sleale, dumping sociale e salariale non aiutano né i lavoratori e le lavoratrici tedesche né le imprese.

L’unione fa la forza, ed è interesse comune fare in modo che i mercati del lavoro dei 27 Paesi europei siano tutti allo stesso modo competitivi e attrattivi, un valore aggiunto per la mobilità intra-UE e la crescita complessiva dell’Unione europea. La direttiva “salari minimi adeguati” va in questa direzione. Così come altre importanti iniziative legislative che rafforzano, in modo armonizzato, i diritti dei lavoratori e delle lavoratrici europee e le imprese sane.

Ha citato il problema delle basse retribuzioni dei dipendenti in Italia, secondo Istat inferiori del 12% alla media europea. Quali fattori spiegano questo gap?

Se oggi, ancora, il nostro Paese è fanalino di coda in Europa è perché non sono mai state adottate politiche redistributive adeguate. E se la qualità del lavoro è debole, è perché non si è investito in modo corretto e lungimirante sulle politiche retributive. Comprese quelle di natura fiscale e di sostegno al reddito, sulla formazione professionale e sul corretto inserimento dei lavoratori e delle lavoratrici nel mercato del lavoro. Le retribuzioni inferiori alla media europea sono figlie di anni di decrescita dei livelli salariali, -2,9 % dal 1990 al 2020 in base ai dati dell’Ocse. A fronte di un aumento della produttività e di una ricchezza che non è stata adeguatamente redistribuita.

Non solo: mentre i livelli salariali degli italiani e italiane diminuivano, in altri Stati europei crescevano a ritmi sostenuti e si attuavano politiche e interventi mirati a mantenere agganciate le buste paga dei lavoratori e delle lavoratrici alla crescita, alla produttività e al costo della vita. Tenendo vivo e attivo il ruolo delle parti sociali e facendo leva sul salario minimo legale, introdotto da quasi tutti i paesi europei, 22 su 27. Dobbiamo anche considerare che da almeno tre decenni l’Italia, schiacciata da un enorme debito pubblico, è cresciuta sempre meno degli altri grandi Stati europei. Dopo la crisi del 2008 e la crisi dei debiti sovrani che colpirono maggiormente il nostro Paese, considerato tra quelli a rischio default, abbiamo assistito a un deciso peggioramento della qualità del lavoro a causa di scelte sbagliate e inique.

Il primo frutto malato è stato il progressivo indebolimento della contrattazione collettiva e del peso dei sindacati maggiormente rappresentativi. Entrambi poi del tutto assenti nei settori produttivi legati allo sviluppo del digitale e delle nuove tecnologie, dei servizi, della cura e dell’assistenza, caratterizzati da salari orari bassi, zero tutele sociali e previdenziali ed elevata precarietà contrattuale. Insomma, nel nostro sistema di relazioni industriali, basato tradizionalmente sulla contrattazione collettiva, si è ceduto il passo al proliferare di accordi “pirata”. Che, schiacciando verso il basso i salari, hanno portato al dilagare di paghe orarie al di sotto di una soglia minima e a una eccessiva frammentazione e deregolamentazione delle prestazioni lavorative. Fattore che ha agevolato l’aumento del lavoro sommerso e irregolare.

Nel suo libro “Salario minimo europeo” ha raccontato la genesi della Direttiva europea. Quali sono state le tappe di questo percorso?

Ho voluto raccontare in prima persona le ragioni politiche che hanno portato negli ultimi tre anni le istituzioni europee, e in particolare il Parlamento, a elaborare una delle direttive più importanti di questa legislatura. La legge europea 2022/2041 infatti rafforza la dimensione sociale dell’UE. Pone le basi per modernizzare il sistema di relazioni industriali e il modello della contrattazione collettiva, per cogliere i cambiamenti del mercato del lavoro e le esigenze delle nuove categorie professionali nella transizione ecologica e digitale.

Le tappe principali sono state l’impegno assunto dalla presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, nel suo primo discorso sullo Stato dell’Unione nel 2020. Quando dichiarò: “Il dumping salariale distrugge la dignità del lavoro, penalizza l’imprenditore che paga salari dignitosi e falsa la concorrenza leale del mercato interno”. Questa è stata la premessa politica per un impegno istituzionale dell’Europa, per rompere con il passato e aprire le porte a una Nuova Europa, più giusta e più sociale. L’altra tappa importante è stata essere riuscita a superare l’opposizione dei Paesi Scandinavi, che volevano sfruttare l’opting out per indebolire e annacquare così la direttiva europea.

Quali sono le ragioni oggettive di chi, come lei, è favorevole all’introduzione del salario minimo nel nostro Paese e quali quelle di chi è contrario?

Le ragioni sono almeno due. La prima riguarda la debolezza della contrattazione collettiva nazionale che, a causa del proliferare dei contratti cosiddetti “pirata”, ha schiacciato i salari di milioni di lavoratrici e lavoratori. Costringendo in alcuni casi anche i sindacati comparativamente più rappresentativi a una corsa al ribasso dei salari minimi. Le riporto l’esempio del settore della logistica, della vigilanza privata o anche quello socioassistenziale delle Rsa. Nei quali il salario minimo orario di un dipendente si ferma a cinque euro all’ora.

La seconda è che ci sono oggi ancora segmenti produttivi scoperti dalla contrattazione collettiva nazionale, soprattutto, quelli legati allo sviluppo del digitale. Non è un caso, dunque, che dopo l’espansione fortemente deregolamentata della cosiddetta Gig Economy, il cui numero di addetti è esploso con la pandemia, al Parlamento europeo ci siamo assunti l’impegno di adottare una serie di norme chiare e stringenti a tutela dei lavoratori e delle lavoratrici delle piattaforme. Costretti a rapporti di lavoro totalmente atipici, irregolari, precari e con salari da fame determinati “a cottimo”. I lavoratori e le lavoratrici delle piattaforme però non sono solo i rider, ma anche un numero crescente di professionisti letteralmente “invisibili”. Un mondo eterogeneo, che lavora tramite il web, con poche tutele e pochi guadagni. Insomma, l’introduzione del salario minimo legale è una questione di giustizia sociale ed equità. Perché c’è una direttiva da recepire entro novembre 2024, pena l’avvio di una procedura d’infrazione. E perché ci sono 3,5 milioni di lavoratrici e lavoratori in Italia che, pur lavorando, non arrivano alla fine del mese. Infine, perché non è vero che il salario minimo metterà fine alla contrattazione collettiva. Anzi, servirà a rafforzare quella dei sindacati comparativamente più rappresentativi, accompagnata da una legge sulla rappresentanza che spazzi via centinaia di contratti “pirata”. Mettendo sul tavolo tutti i problemi irrisolti del mercato del lavoro italiano, non ci sono invece motivi altrettanto oggettivi per dire “no” al salario minimo.

Ha affermato che in Italia la contrattazione collettiva si è indebolita negli ultimi vent’anni. Perché si è arrivati a questa situazione?

L’indebolimento è imputabile a diversi fattori. Uno è, metaforicamente parlando, un “difetto genetico” da addebitare all’articolo 39 della Costituzione. In cui, da un lato, i padri costituenti hanno giustamente affermato il principio della libertà di associazione sindacale. Ma dall’altro, almeno in teoria, perché proprio per tutelare tale libertà non è mai stato attuato, hanno imposto di definire per legge le “categorie” utili a determinare la rappresentatività numerica dei sindacati.

Dal varo della Costituzione a oggi, quindi, il nostro sistema di relazioni industriali si basa sulla assoluta libertà di rappresentare ora un segmento specifico di una più ampia categoria produttiva ora un determinato numero di lavoratori e lavoratrici, anche molto esiguo. Solo una legge sulla rappresentanza potrebbe dare attuazione al quarto comma dell’articolo 39. Ovvero, risolvere il rebus dell’efficacia erga omnes dei contratti collettivi nazionali e stabilire i sindacati comparativamente più rappresentativi.

In Italia sono oltre mille i contratti depositati al Cnel. Di questi, solo nel settore privato, oltre la metà sono scaduti da almeno sei anni. Ristabilire un equilibrio e ripristinare il buon funzionamento della contrattazione collettiva è, quindi, per il nostro Paese imprescindibile. Certo, occorre tenere conto che l’attuale mercato del lavoro non è più quello di 30-40 anni fa e che l’indebolimento dell’efficacia dei Ccnl è dipeso anche da ragioni esterne, non imputabili alle parti sociali. Globalizzazione, processi di esternalizzazione e aumento della precarizzazione dei rapporti di lavoro. Tuttavia, già nel 2014 le confederazioni sindacali e le associazioni imprenditoriali più importanti del Paese si erano dotate di un Testo Unico. Stabilendo il sacrosanto diritto che “a decidere in materia contrattuale deve essere la maggior parte degli interessati”.

Ciò significa che le principali parti sociali sono coscienti che il sistema di contrattazione collettiva va riformato per rispondere alle nuove esigenze della domanda e dell’offerta del mercato del lavoro. E che oggi una legge che stabilisca quale sindacato può negoziare i contratti collettivi dei rapporti di lavoro, addirittura anche in modo prevalente rispetto alla legge, dal momento che oggi i Ccnl già possono derogare alla stessa, permetterebbe davvero al Paese di rafforzare e aggiornare le basi del sistema di relazioni industriali. Ripristinando il giusto equilibrio tra legge e contrattazione collettiva. Per questo, credo che un secondo fattore dell’indebolimento di cui abbiamo parlato sia stato politico.

Negli altri principali Paesi europei, invece, che cosa è successo?

Fermo restando che l’Europa dei 27 è in questo ambito ancora disomogenea, negli altri Stati europei a noi più vicini – Spagna, Francia e Germania – la contrattazione collettiva non ha perso slancio e ruolo, anzi. E i governi o le parti sociali non si sono opposti a una legge fondamentale sui livelli salariali. Che racchiude in sé meccanismi importanti di redistribuzione della ricchezza spezzando sul nascere quella spirale in cui rendite e profitti hanno prevalso sui criteri di equità sociale come è avvenuto purtroppo in Italia.

Che bilancio può fare della sua esperienza da eurodeputata? Si ricandiderà alle elezioni europee?

La legislatura è stata difficile, ma sono soddisfatta dei risultati raggiunti. I quali si sostanziano nelle tante e importanti iniziative alle quali ho lavorato. Apportando idee e presentando proposte in linea con una visione d’Europa sociale, in cui lavoro e occupazione siano centrali per migliorare le condizioni di vita di milioni di cittadini e contribuire così alla costruzione di un modello economico sostenibile in chiave sociale e umana.

Non spetta a me decidere sulla ricandidatura, ma al Partito Democratico, di cui faccio parte. Certamente, sono stata e resto al servizio delle istituzioni europee, dei cittadini e delle cittadine e dei territori, centrali per definire un’Europa basata su maggiore integrazione, giustizia sociale, equità, cooperazione e solidarietà.

Daniela Rondinelli, eurodeputata Chi è Daniela Rondinelli

Nata nel 1967, Daniela Rondinelli si laurea in Scienze Politiche alla Luiss di Roma. Vive l’esperienza Erasmus presso la Facoltà di Legge dell’Università di Lovanio, in Belgio, dove approfondisce i sistemi di sicurezza sociale nei Paesi UE. Dal 1992, per vent’anni, ricopre il ruolo di responsabile per le politiche europee e internazionali e negoziatrice di contratti collettivi nazionali di settore e integrativi aziendali nella Federazione nazionale del Commercio, Turismo e Servizi della Cisl, sindacato per il quale ha ricoperto anche il ruolo di responsabile del coordinamento femminile nazionale.

Nel 2019 viene eletta al Parlamento europeo per il Movimento 5 Stelle, che lascia nel 2022 per seguire prima Luigi Di Maio in Insieme per il futuro e poi iscriversi, nel 2023, al Partito Democratico. Al Parlamento europeo siede nelle fila dell’Alleanza Progressista dei Socialisti e dei Democratici.

 

 

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