Colmare il deficit di competenze: una priorità per il Paese

Quanto incide sulla crescita del nostro Paese e come si può affrontare il deficit di competenze nel mercato del lavoro italiano?

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Deficit di competenze dei lavoratori in italia

di Romano Benini |

Governare il cambiamento non è un mestiere facile.

Non lo è soprattutto in una nazione come l’Italia in cui è molto varia la distribuzione delle competenze tra Stato, regioni e comuni nelle politiche pubbliche e tra i diversi soggetti che compongono la rete di chi attua le politiche, che affianca gli enti pubblici e quelli privati accreditati a svolgere una funzione di rilevanza pubblica come la formazione.

Tra questi ultimi hanno un ruolo importante per il lavoro, anche se non completamente esercitato, gli strumenti della bilateralità che uniscono i sindacati dei lavoratori e dei datori di lavoro. Proprio per questa pluralità di soggetti unica in Europa, soprattutto per il ruolo determinante attribuito all’autonomia regionale, quando si parla di come si affrontano i cambiamenti è più corretto parlare di “governance” che di governo.

Si intende quella funzione di indirizzo e di coordinamento che il governo deve esercitare nella rete dei soggetti istituzionali con cui si prendono le decisioni e nell’ambito del contesto dei tanti soggetti pubblici e privati chiamati a realizzare le politiche, gli interventi e a erogare i servizi. Questa funzione di indirizzo agisce nella necessità di garantire quei livelli essenziali delle prestazioni sociali. Che, per quanto riguarda la sanità, la sicurezza, la formazione, l’assistenza e il lavoro, sono stabiliti dalla Costituzione all’articolo 117 proprio come precondizione per affermare la cittadinanza sociale sul territorio italiano.  I compiti di indirizzo vanno esercitati con decisioni e strumenti adatti, ma anche con attenzione ai tempi e ai modi con cui si prendono le decisioni.

Il lavoro italiano nella transizione delle competenze

In questa fase di cambiamento a livello globale questa capacità di “governance” diventa fondamentale soprattutto sui temi del lavoro e delle competenze. La transizione può diventare una opportunità o alimentare rischi e difficoltà soprattutto per come la sappiamo gestire. Si tratta di imparare a “cavalcare la tigre del cambiamento”. Magari prendendo spunto, se si tratta dell’Italia, dalle nazioni che hanno preso decisioni che funzionano o dalle regioni o dai territori che hanno promosso soluzioni efficaci.

In ogni caso il terreno di gioco della transizione del lavoro è chiaro. E ci mostra questi elementi di fondo:

  • cresce la domanda di lavoro, in ogni nazione, anche in Italia;
  • la domanda di lavoro nelle nazioni più evolute cresce in termini qualitativi e richiede in genere maggiori competenze e specializzazione;
  • le competenze dei lavoratori e dei disoccupati appaiono inadeguate, con forti differenze territoriali;
  • l’introduzione dell’intelligenza artificiale e delle tecnologie digitali è fondamentale per aumentare il livello di innovazione e in questo modo aumentare la produttività e quindi i salari;
  • per gestire l’impatto dell’intelligenza artificiale come fattore di sostituzione delle mansioni più ripetitive diventa fondamentale intervenire su ogni livello di competenza, anche sulle più esecutive;
  • la presenza di una offerta di competenze adeguata e omogenea sul territorio è il principale fattore di permanenza degli investimenti e dei fattori economici, quindi anche dei residenti, dato anche più decisivo di quanto viene indotto dagli sgravi e dagli incentivi;
  • nessuno sgravio contributivo o fiscale può a oggi compensare il deficit di competenze presente tra i territori italiani e diventa necessario uno sforzo di posizionamento degli investimenti formativi e per l’innovazione almeno pari al costo degli sgravi concessi alle aree del Mezzogiorno e in ritardo di sviluppo.

Questi fenomeni sono noti, ma se non sono affrontati con indirizzi conseguenti nelle politiche pubbliche si rischia di alimentare i problemi. Il cambiamento per la sua stessa natura porta con sé delle contraddizioni sistematiche che, in assenza di scelte, si amplificano. La premessa per una azione di governo adeguata è che le risorse pubbliche e il sistema fiscale siano concentrati sulla promozione della qualificazione del lavoro all’interno di una strategia complessiva volta a rafforzare la competitività del Paese.

Competitività delle imprese e competenze dei lavoratori

Cresce la domanda di lavoro: tra il 2021 e il 2024 il tasso di occupazione in Italia è passato dal 58% al 62%. La spinta c’è, ed è destinata a perdurare quantomeno ancora per qualche anno. Non deve bastare, in quanto per mettere in sicurezza i conti pubblici e il welfare con l’attuale andamento demografico è necessario passare entro pochi anni dal 62% al 68% di occupati, quel livello presente in Francia e in altri Paesi che a sua volta permette di innescare anche una ripresa demografica.

In questo gioco c’è un fattore a favore degli italiani, ma ce ne sono altri due che remano contro. Il fattore favorevole è che la spinta delle imprese c’è e resta: esiste una domanda di competenze che cresce. Questa domanda nei prossimi anni sarà stimolata dal progressivo pensionamento di più di tre milioni di italiani, che appartengono alla generazione di “boomer”, la più numerosa della nostra storia. Il fatto che con la crescita della domanda aumenti anche la difficoltà a trovare competenze da parte delle imprese è tuttavia spiegato anche dai due concomitanti fattori non favorevoli.

Il primo è che le nuove generazioni sono meno numerose e l’effetto dell’andamento demografico determina un minor numero di potenziali candidati. Secondo, il cambiamento in corso determina, soprattutto nei profili professionali con condizioni più vantaggiose, la necessità di possedere adeguate e specifiche competenze. Le competenze “generiche” sono sempre meno richieste e sostituibili e anche per questo comportano condizioni salariali meno favorevoli. Queste competenze di livello più specifico e di natura prevalentemente tecnica sono sempre più difficili da reperire, anche per la scelta in questi anni di molti giovani italiani preparati di trasferirsi all’estero per via delle condizioni salariali più favorevoli.

In ogni caso per passare dal 62% al 68% di occupazione il salto da fare è soprattutto in termini di competenze. Non è solo quantitativo ma è insieme qualitativo e quantitativo. La quantità di lavoro che si crea è direttamente proporzionale alla qualità delle competenze che si riesce a stimolare. Per questo motivo il passaggio generazionale in corso costituisce una fase di grande importanza e stimolo, che i tanti decisori e attuatori delle politiche italiane non possono permettersi di sbagliare. Il tema centrale riguarda il ritardo di competenze che investe gli occupati e i disoccupati italiani, peraltro molto maggiore proprio nei territori in ritardo di sviluppo. Ad ulteriore conferma che lo sviluppo è determinato dalle competenze. È il lavoro che fa l’economia, non il contrario. Ed è il lavoro dei competenti a fare l’economia competitiva.

Defici di competenze: il tasso di partecipazione all'adult learning

Il deficit di competenze degli occupati

Prima di intervenire per il rafforzamento delle competenze dei disoccupati dobbiamo mettere in sicurezza le competenze degli occupati italiani. Il quadro che esce ogni anno dalle analisi della rilevazione PIIAC sulle competenze degli adulti non è brillante. E ci offre indicazioni chiare sulla necessità di sostenere e migliorare le competenze dei lavoratori occupati. Vuoi per l’alta età media dei nostri lavoratori, intorno ai 48 anni, vuoi per la presenza di larghe fasce di economia a basso valore aggiunto, vuoi per le differenze territoriali e per l’accelerazione dei cambiamenti per via della transizione tecnologica, le competenze di base dei nostri lavoratori non sono come adeguate. Soprattutto, mostrano differenze territoriali preoccupanti.

Il rischio vero è quello di avere una parte minoritaria del paese che crea valore ed è iperproduttiva e una maggioranza meno produttiva, con salari bassi o che alimenta settori non meritocratici. Questa differenza è sia sociale sia territoriale e mostra un processo di riconfigurazione in corso da alcuni anni. Dall’analisi dei report elaborati per il Ministero del Lavoro dall’Inapp, sulle rilevazioni Piaac relative alle competenze per gli adulti, emerge un dato di fondo. Dove l’economia è più debole si crea meno lavoro e il lavoro che si crea è più povero, anche per la maggiore presenza di lavoratori con basse competenze.

Le differenze territoriali in termini di opportunità in Italia sono ancora estese e vanno affrontate attraverso una strategia per consolidare il lavoro soprattutto al Sud e nelle aree interne. Questa strategia funziona solo se è in grado anche di determinare il rafforzamento delle competenze e dell’accesso all’apprendimento permanente nella fascia estesa dell’economia a basso valore aggiunto. Quella che determina lavoro povero e bassi salari, ancora prevalente nelle regioni del Centro Sud. In modo da stimolare o da rispondere a una necessaria qualificazione della domanda e dei mercati di riferimento.

Una questione sociale, politica ed economica

La questione è centrale anche dal punto di vista politico. In assenza di forti investimenti per l’estensione delle eccellenze e l’innalzamento del valore aggiunto, nei settori e nei territori, rischiamo di avere una prevalenza di una economia a basso valore aggiunto e tecnologia inadeguata. Condizionata al ribasso da una committenza sempre meno italiana e anche per questo sempre più indifferente alla crescita del territorio. Se non si inverte questo fenomeno, il rischio geoeconomico è quello di avere un Paese sbilanciato. L’Italia rischia di diventare la regione meridionale del sistema economico franco-tedesco, che si ferma agli Appennini, e non una nazione centrale nel Mediterraneo, luogo primario dello scambio commerciale globale.

Il lavoro si crea e si innova in ragione della presenza di competenze e capacità sul territorio. E riscontriamo dalle rilevazioni una diversità accentuata tra le regioni con una difficoltà presente anche nel Nord Ovest e dati bassi al Sud. In ogni caso il punteggio medio delle competenze di base degli occupati italiani è sotto la media Ocse e dobbiamo finalizzare le risorse pubbliche e della bilateralità a compensare questo squilibrio. Se osserviamo la divisione territoriale delle competenze di base degli adulti, il nostro Mezzogiorno è collocato in basso nella classifica Ocse, a livello della Turchia, mentre il Centro Nord risulta più o meno nella media per le competenze linguistiche e matematiche considerate nella rilevazione.

Il differenziale territoriale resta anche se si considerano i lavoratori diplomati e laureati, a conferma che il titolo di studio non si accompagna necessariamente con l’acquisizione di una maggiore competenza sul lavoro. Le competenze basse dei lavoratori dipendono soprattutto dal fatto che operano in una economia e in attività a basso valore aggiunto, innovazione e capacità produttiva. Il rafforzamento del lavoro e quello delle attività economiche procedono necessariamente insieme e necessitano di una strategia, di politiche e di strumenti di riferimento e condivisi. A lavoratori deboli corrisponde infatti sempre una economia debole e viceversa: per questo la formazione e la riqualificazione delle competenze vanno viste come un investimento strategico al Sud e nelle aree interne, ma anche nel Nord Ovest da cui arrivano segnali che impongono un cambiamento.

Il disallineamento delle competenze dei disoccupati

Al fenomeno delle basse competenze degli occupati, come media prevalente nelle aree in ritardo di sviluppo, si affianca, ed è complementare, il tema delle competenze dei disoccupati. Gli occupati e i disoccupati italiani sono stati mediamente in formazione nel 2022 per il 35,7% dei casi (ultimo dato annuale disponibile). Questo dato è determinato da una formazione media del 44% degli occupati e del 21% per i disoccupati.

Se consideriamo l’avvio del programma Gol nel 2023, il dato della percentuale dei disoccupati in formazione (upskilling e reskilling) sale nel 2023 intorno al 26%, ma non va oltre. Se teniamo conto di come la formazione per i disoccupati del programma Gol debba riguardare almeno 800mila disoccupati, dei quali hanno iniziato i corsi in meno di 250mila a maggio 2024, è evidente come siano i prossimi mesi quelli che misurano la capacità o meno delle nostre politiche pubbliche e dei soggetti gestori e attuatori, in primis le regioni e la bilateralità, di fare il necessario salto di qualità per la formazione dei disoccupati.

Ci sono contraddizioni e ritardi da affrontare, ma anche segnali importanti che ci arrivano dalla lettura dei dati e dei fenomeni in corso. Innanzitutto, il fatto che la condizione occupazionale influisce sulla partecipazione all’apprendimento continuo. Questo è il primo paradosso: i disoccupati in Italia accedono in misura decisamente minore alle attività formative (26% nel 2023) rispetto agli occupati (44,1%). Così come gli occupati in professioni a bassa qualifica rispetto a chi svolge professioni più qualificate (62,6% per dirigenti, imprenditori e liberi professionisti, contro il 24,6% per lavoratori a bassa qualifica). Coloro che avrebbero più bisogno di acquisire, sviluppare e aggiornare le competenze, per tenere il passo con i cambiamenti del mercato del lavoro e ridurre così il rischio di fuoriuscita, sono proprio coloro che si formano di meno.

In Italia, inoltre, lo svantaggio dei disoccupati rispetto agli occupati è decisamente più accentuato rispetto alla media dei Paesi europei. Meno di un disoccupato su quattro (25-64 anni) partecipa a un corso di istruzione o formazione, contro uno su tre registrato mediamente in Europa. Tra gli occupati il tasso di partecipazione è due volte superiore a quello registrato tra i disoccupati, differenza che a livello europeo scende a 1,6 volte. Un disoccupato che non si forma rischia di rimanere disoccupato più a lungo e ostacola l’obiettivo dell’inserimento lavorativo. La distanza con l’Europa si riduce invece tra gli occupati che svolgono lavori ad alta qualifica. Tra i dirigenti, imprenditori e liberi professionisti, l’incidenza di partecipazione in Italia è pari al 63,1%, valore di appena 5,6 punti percentuali inferiore alla media europea (68,7%).

Il paradosso è che, in Italia, chi è più competente si forma e si aggiorna, mentre chi lavora con competenze più basse o è disoccupato tende a formarsi di meno o non lo fa affatto, a meno che non sia obbligato. Come direbbe Socrate: chi sa, sa di non sapere, mentre chi non sa, non sa di non sapere. Le disoccupate o le occupate con profili a bassa qualifica che non hanno fatto alcun tipo di formazione dichiarano più spesso degli uomini di non averlo fatto a causa dei costi e delle responsabilità familiari. Tra le donne, infatti, la quota di chi non si forma per prendersi cura della famiglia è quasi quattro volte maggiore rispetto a quella degli uomini (19% contro il 5,3%). E rappresenta un freno all’accesso e alla progressione verso attività lavorative più qualificate.

Insomma, la formazione aziendale per gli occupati e per l’inserimento lavorativo dei disoccupati viene fatta di meno proprio nei luoghi e nelle condizioni in cui più ne abbiamo bisogno. L’Istat, nella survey pubblicata da aprile 2024, ci spiega che questo avviene non solo per motivi di organizzazione e di costo, ma anche per una inadeguata consapevolezza dei lavoratori e dei datori di lavoro. Nella maggior parte dei casi ciò che frena la partecipazione degli adulti alle attività formative, infatti, è la scarsa motivazione. Del 64,3% di 25-64enni che non ha partecipato ad alcuna attività formativa, quasi l’80% non desiderava farlo. Tra i disoccupati che non hanno potuto partecipare, la motivazione più diffusa è rappresentata dai costi (29%). Che per gli occupati è invece seconda alla difficoltà di conciliazione con l’attività professionale o la vita privata (37,8%, mentre la quota di chi dichiara motivi economici si ferma al 21,5%).

Cosa si sta facendo

La strategia che il governo sta mettendo in campo per affrontare questi fenomeni è evidentemente articolata e implica investimenti importanti. Tra questi interventi sono prioritari:

  • revisione e potenziamento dei programmi comunitari che intervengono per la formazione dei disoccupati (Gol) e per i giovani Neet (PN giovani donne e lavoro);
  • revisione e finalizzazione del Fondo Nuove Competenze per qualificare la formazione degli occupati e legare gli interventi anche ai disoccupati selezionati per l’assunzione;
  • approvazione del decreto che consente la validazione e la certificazione a livello nazionale degli interventi formativi e delle competenze;
  • promozione del Fondo Nazionale per l’Autoimpiego, destinato all’avvio di attività di lavoro autonomo e professionale per i giovani disoccupati under 35 anni e al finanziamento di percorsi formativi per chi intende avviare una attività di impresa.

Tutto questo si muove nel contesto della governance, ossia della capacità del governo di condividere le politiche e gli strumenti con le regioni e di dare linee di indirizzo chiaro alla rete dei soggetti che operano sul mercato del lavoro e nella formazione. Si tratta di una strategia che intende non solo trasferire risorse e incentivi, ma anche creare convenienze e stimolare comportamenti e scelte, indirizzate al “fattore umano”. Ossia a quel rafforzamento di capacità, conoscenze e competenze che è il solo antidoto alle situazioni di crisi e di difficoltà.

Romano BeniniChi è Romano Benini

Romano Benini è professore straordinario di Sociologia del welfare e coordinatore del corso di laurea in Consulenza del lavoro presso la Link Campus University di Roma e docente di Sociologia del Made in Italy presso l’Università La Sapienza di Roma. Giornalista economico, è autore di Il posto giusto, il programma di Rai3 su formazione e mercato del lavoro, e consulente della Fondazione Studi dei Consulenti del Lavoro, della Cna nazionale e di diverse istituzioni. Tra i libri più recenti: Il fattore umano (Donzelli, 2016), Lo stile italiano, Mutamenti sociali e inclusione attiva (Eurilink, 2018), Il posto giusto (Eurilink, 2020).

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