Attenzione a dove si stipula la conciliazione

Il luogo dove si raggiunge un accordo di conciliazione può essere fondamentale e dirimente per il suo regime giuridico: lo afferma l’ordinanza n. 10065 del 15 aprile 2024

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Licenziamento e conciliazione

di Luigi Beccaria* |

Come sicuramente noto agli operatori del settore, la cessazione del rapporto di lavoro di un dipendente può verificarsi in due principali modalità.

Le dimissioni, ossia il recesso liberamente esercitato dal lavoratore stesso, oppure il licenziamento, a vario titolo giustificato. Attraverso il quale, con altrettanta unilateralità ma con ben più contrappesi, il datore di lavoro conclude la collaborazione recedendo dal contratto e allegando un giustificato motivo o una giusta causa.

Il fenomeno delle dimissioni

Il mero dato empirico suggerisce che le dimissioni siano un fenomeno in relativo aumento (sulla scia delle cosiddette “Grandi Dimissioni”). E che stiano comportando distorsioni non ancora del tutto comprese sul funzionamento del mondo del lavoro. C’è infatti chi ha osservato come il passaggio delle competenze nelle aziende e negli studi professionali stia diminuendo da un punto di vista qualitativo e quantitativo, in funzione dell’aumento del turnover, che rende molto più complessa la formazione dei giovani.

I quali, peraltro, sempre più spesso decidono di affrontare nuove esperienze e cambiano posto di lavoro senza essersi pienamente formati nel precedente. Le dimissioni, in ogni caso, subentrano quando il lavoratore dimissionario ha già trovato un’altra occupazione. Un lavoro per lui più stimolante da un punto di vista economico o esistenziale.

Il caso del licenziamento

Ben diverso è il caso del licenziamento, un provvedimento “subìto” dal lavoratore. Il quale, sempre ragionando per trend generali suffragati da osservazioni empiriche, si oppone. Si potrebbe dire, in senso non così atecnico, tenta di “resistere” e ottenere delle tutele. Più spesso economiche, ma con gli spazi per la tutela reintegratoria rimasti aperti in modo non residuale dopo le varie sentenze della Corte Costituzionale, che hanno ridimensionato la portata innovatrice del “Jobs Act”.

Dall’impugnazione del licenziamento scaturisce tipicamente una trattativa volta a concludere l’efficacia risolutiva del rapporto, attraverso la stipulazione di un atto detto “di conciliazione”. Si tratta, tecnicamente, di un contratto di transazione a mezzo del quale le parti effettuano reciproche rinunce. In cui, a fronte della corresponsione di un certo importo di denaro (liberamente stabilito in funzione di variabili quali effettivi torti e ragioni sottostanti alla decisione datoriale, anzianità di servizio, abilità dei negoziatori, siano essi avvocati, sindacalisti o consulenti del lavoro), il lavoratore rinuncia all’impugnazione e le parti si liberano reciprocamente da qualsiasi vincolo giuridico ed economico.

Da un lato è un bene che sia così. Se infatti tutte le controversie scaturenti da un licenziamento dovessero concludersi in Tribunale (magari articolandosi in tutti i gradi di giudizio previsti dal nostro ordinamento), la situazione della giustizia sarebbe ancor più drammatica di quanto non sia già. Inoltre, seguendo il saggio insegnamento manzoniano, “La ragione e il torto non si dividono mai con un taglio così netto, che una parte sia soltanto dell’una o dell’altra”, l’accordo fotografa una situazione che raramente è completamente nera o completamente bianca (id est: licenziamento completamente illegittimo o completamente legittimo).

Gli accordi di conciliazione

La legge, presumendo la sussistenza di una disparità economica e informativa tra le parti, prevede che detti accordi di conciliazione, la cui disciplina è stata peraltro rafforzata nell’ambito del Jobs Act, debbano avvenire in una “sede protetta”. Da quando svolgo la mia duplice professione di consulente del lavoro e avvocato, e quindi più di dieci anni, è sempre stato pacifico che per “sede protetta” si intendesse un ambiente quanto più “neutro” possibile (di solito lo studio del professionista). Che prevedesse la presenza di un sindacalista/conciliatore, preposto a rendere edotto il lavoratore dei vantaggi e delle rinunce conseguenti all’accordo.

Devo inoltre specificare che tutti i sindacalisti, che svolgevano questa funzione dietro corrispettivo, sono sempre stati alquanto seri nel leggere integralmente i testi dei verbali approntati. Anche i passi oggettivamente incomprensibili, con combinati disposti tipicamente da legulei tra richiami a normativa civilistica, procedurale, speciale ecc. Nonché nel dubitare della validità di alcune clausole o nell’offrire al lavoratore una consulenza sul post licenziamento (es. documenti utili per ottenere la Naspi, sede Inps più vicina).

A tutti i presenti alla conciliazione (i cui contenuti erano già stati negoziati con l’assistenza di soggetti specializzati) è sempre parso di fare una cosa utile anche per il buon funzionamento del  sistema. Deflazionando il già ingolfato sistema giudiziario.

L’ordinanza della Corte di Cassazione

Ho invece appreso, con perplessità condivisa da molti colleghi, che il quadro potrebbe improvvisamente mutare. La Corte di Cassazione, con la recente ordinanza n. 10065/2024, ha infatti affermato che la “sede sindacale” non può coincidere con una nozione sostanziale di luogo protetto ove vengano garantiti i diritti del lavoratore. Bensì con un luogo “fisico – topografico” coincidente solo e soltanto con i luoghi tassativamente indicati dalla legge. Ovvero, le sedi sindacali strictu sensu, le commissioni di conciliazione e l’Ispettorato del Lavoro, a prescindere dall’effettività dell’informazione e dell’assistenza.

Tale arresto della Suprema Corte non appare condivisibile. Innanzitutto perché chi scrive ritiene sempre che il criterio sostanzialistico sia preferibile a quello formalistico. Per cui, anche ammesso che vi sia davvero una “pressione” sul lavoratore (che in qualche caso certamente c’è, ma in molti altri casi la negoziazione, assolutamente genuina, è già avvenuta, magari anche con toni duri tra i rispettivi incaricati), questa non si potrà certo misurare sul luogo fisico ove sottoscrivere un accordo tipicamente già redatto da giorni.

Inoltre, sancendo l’invalidità delle conciliazioni così effettuate, contravvenendo a una prassi che, al netto di qualche abuso, era affermata da decenni, il giudice di legittimità rischia di travolgere (o di consentire opportunisticamente di travolgere a chi ravvisasse un interesse nel farlo) gli effetti di accordi già negoziati come “tombali” mesi fa. Rischiando di creare una notevole entropia nel sistema. Vanificando il motivo per cui effettuare le conciliazioni (ossia l’effetto deflattivo sui Tribunali).

In generale, l’evoluzione del diritto “vivente” nella contemporaneità dovrebbe, sempre nella modesta opinione di chi scrive, rimanere il più aderente possibile alla sostanza delle questioni, abbandonando formalismi ormai anacronistici. Si auspica, pertanto, che future pronunce, magari emesse dalla Corte nella sua composizione a Sezioni Unite, rivedano questo orientamento passibile di notevoli distorsioni e abusi, probabilmente più destabilizzanti per il sistema di quelli che mirava a prevenire.


* Luigi Beccaria è avvocato e partner di Studio Elit. Collabora con l’Università degli Studi di Milano e con l’Università Cattolica del Sacro Cuore.

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