Congedo di paternità, tra retorica e realtà

Nonostante la crescente pressione per estendere i congedi di paternità, la realtà dimostra che il loro impatto sul work-life balance è scarso: l'approfondimento a firma di Matteo Musa, papà di 2 bambini e Ceo e Co-Founder di Fitprime

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Congedo di paternità e retaggi culturali

Due o quattro settimane di congedo di paternità alla nascita di un figlio?

Da anni se ne dibatte, come se nella risposta a questa domanda ci fosse la soluzione al tema del gender gap. Ma è davvero la domanda giusta? In realtà no e anzi sembra un modo di spostare l’attenzione sul vero tema. Che è la cultura del lavoro e della famiglia, che ancora vede i padri come marginali nelle responsabilità domestiche.

I dati dimostrano che il problema non è la mancanza di congedi parentali (già disciplinati per legge e disponibili per il papà come per la mamma, almeno in Italia), ma il retaggio culturale che impedisce ai papà di utilizzarli. E allora due o quattro settimane retribuite alla nascita possono essere importanti a livello simbolico, ma nella pratica non cambiano il work-life balance delle famiglie italiane.

La protesta dei papà in Inghilterra

Ha fatto molto rumore la singolare protesta dei papà inglesi sulla mancanza di congedi parentali. Nel Regno Unito persiste una mindset tradizionale, che vede le madri come principali responsabili dei figli, mentre i padri tornano al lavoro rapidamente. E così, i padri britannici hanno solo due settimane di congedo retribuito, tra i peggiori in Europa. E non solo. Un terzo dei padri inglesi non utilizza nemmeno questo congedo, dato che il sostegno economico è insufficiente.

Secondo un sondaggio YouGov commissionato dal gruppo Pregnant Then Screwed, il 62% dei padri afferma che prenderebbe più congedo se fosse finanziariamente sostenibile. Per protesta e per attirare l’attenzione dell’opinione pubblica, i promotori dell’iniziativa hanno “messo in braccio” dei bambolotti ad alcune statue pubbliche nei quartieri di Londra.

Congedo di paternità in Italia

Vediamo il caso dell’Italia. Secondo il nostro ordinamento, oltre ai cinque mesi di maternità obbligatoria per la madre, per ogni figlio la madre può fruire di ulteriori sei mesi di congedo parentale facoltativo, fino al compimento dei 12 anni di età del bambino. Ma ulteriori 6 mesi spettano all’altro genitore. Il totale di congedi tra i genitori non può superare i 10 mesi. Fino al 2023, questo periodo era retribuito al 30%, al contrario dell’assenza obbligatoria pagata all’80%.

La scorsa legge di Bilancio ha per la prima volta previsto un aumento della retribuzione per il congedo parentale facoltativo, pagando i primi due mesi all’80%. Con la prossima finanziaria, il governo intende aumentare i mesi di congedo parentale per mamme e papà pagati all’80% dello stipendio da due a tre. Non solo. Il congedo parentale facoltativo aumenta se il padre sta a casa almeno 3 mesi. In questo caso il totale per la coppia viene elevato a 11 mesi. La normativa dunque non solo esiste, ma negli aggiornamenti più recenti cerca di incentivare i papà a fruire dei congedi.

Il retaggio culturale è il vero ostacolo

Secondo il Gender Gap Index, le donne italiane dedicano ai lavori di assistenza e cura non retribuiti in media quasi 3 volte più tempo rispetto agli uomini (i dati sono qui EIGE sull’Italia). Per avere un termine di confronto su quanto lavori ci sia ancora da fare, basti pensare che le donne svedesi dedicano circa 1,5 volte più tempo rispetto agli uomini. Dati che riflettono una profonda rigidità culturale che si ripercuote sul mondo del lavoro. Influenzando la scarsa adesione degli uomini al congedo di paternità e aumentando il divario di genere.

Congedo di paternità e work-life balance

Se è vero che nei primi nove mesi di vita del neonato è più probabilmente la mamma ad aver bisogno di un lungo congedo parentale, non vi è alcuna ragione per cui, successivamente, i padri non possano fruire di lunghi permessi per la cura dei figli. La realtà è che spesso non lo fanno. E non è solo un problema di politiche o incentivi economici, che pure non vanno sottovalutati, ma di cultura.

La figura del padre, specialmente in Italia, è ancora intrappolata in stereotipi che lo vedono più come il “provider” che come il “caregiver”. L’unico piccolo segnale in controtendenza è quello dei padri che prendono il congedo facoltativo per seguire i figli nelle scelte scolastiche più avanzate (scuole superiori o università). Uno studio Istat ci dice che nel 2021 il 15% dei padri ha preso congedi per partecipare attivamente a decisioni educative dei figli.

Questi dati suggeriscono una lenta ma progressiva evoluzione nel coinvolgimento paterno. È un fenomeno piccolissimo, ma interessante da osservare perché inserisce il padre come figura educativa di riferimento in un momento in cui le esigenze di “accudimento” calano e aumentano quelle di “orientamento e supporto”. Ma il cambiamento reale deve partire da una trasformazione culturale che veda i padri come protagonisti della cura dei figli. E che riconosca il lavoro di cura non come prerogativa femminile.

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