È tempo di Age Management

In un convegno organizzato a Cremona da Arbra Formazione lo scorso novembre si è parlato di un tema delicato, che nel mondo del lavoro attuale, segnato da carenza di competenze e invecchiamento demografico, si pone però come una priorità: come gestire i lavoratori che invecchiano

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age management nelle aziende

Perché interrogarsi sull’Age Management? Per l’Organizzazione Mondiale della Sanità i lavoratori anziani sono coloro che hanno superato i 55 anni di età. Nel caso dell’Italia, si tratta di buona parte della popolazione attiva.

Ce lo dice l’indice di ricambio, ossia il rapporto percentuale tra la fascia di popolazione che sta per andare in pensione (60-64 anni) e quella che sta per entrare nel mondo del lavoro (15-19 anni), che nel 2024 era di 146,9. Il valore, superiore a 100, segnala che la popolazione in età lavorativa in Italia è molto anziana. E, dato ancora più preoccupante, le prospettive per gli anni a venire non fanno pensare a un’inversione di rotta.

Age management, un problema di sostenibilità

Il tema grava sulla sostenibilità dell’occupazione nel nostro Paese, come è stato ben evidenziato in occasione del convegno “Age Management – Gestire i lavoratori che invecchiano”, organizzato da Arbra Formazione. Come ha detto Germana Scaglioni, cofondatrice e direttrice della società di formazione attiva dal 2011.

“L’ente che dirigo gestisce la formazione di oltre 10mila dipendenti del comparto sociosanitario, dipendenti di fondazioni di diverse dimensioni, e di grossi gruppi gestori. Il problema della gestione dei lavoratori anziani è trasversale a tutti quanti. Nessuno escluso”. Scaglioni ha ricordato come l’emanazione del D.lgs 29 del 15 marzo 2024, il cosiddetto “Decreto Anziani”, abbia fornito lo spunto per il contenuto del convegno.

La normativa, che contiene le misure per la promozione della salute e dell’invecchiamento attivo delle persone anziane da attuare nei luoghi di lavoro, implica che le imprese adattino le proprie condizioni di lavoro a un gran numero di lavoratori con limitazioni funzionali e malattie croniche. Ne avranno la capacità? E, soprattutto, avranno le risorse finanziarie necessarie? È chiaro che mantenere impegnati i lavoratori in fasce di età avanzate richiede uno sforzo importante, che coinvolge la cultura aziendale, le condizioni di lavoro, gli atteggiamenti, le pratiche e la qualità del lavoro stesso.

La dignità del lavoro non ha età

“Invecchiare non è una malattia!”, ha ammonito Marco Trabucchi, già professore ordinario di Neuropsicofarmacologia nell’Università di Roma Tor Vergata, specialista in psichiatria ed ex presidente dell’Associazione Italiana di Psicogeriatria. Al convegno è intervenuto sottolineando l’aspetto fondamentale della dignità del lavoratore anziano. Secondo Trabucchi il lavoro è parte integrante della costruzione dell’identità personale e questa sua funzione è centrale anche nella vita del lavoratore non più giovane.

Invecchiare, dunque, è una condizione naturale della quale comunque occorre tenere conto nel mondo del lavoro, concentrandosi sulla persona e le sue esigenze. Lo ha spiegato anche Greta Boccasavia, medico del lavoro, che ha ricordato come i protocolli sanitari vadano integrati nel caso dei lavoratori anziani. Perché, se è vero che a 55 anni una persona è in realtà nel pieno della propria vita attiva, è altrettanto vero che alcune condizioni di lavoro incidono più di altre come fattori di rischio per la salute.

Malattie e sicurezza sul lavoro

Ad approfondire quest’ultimo aspetto è stata Monica Livella, responsabile della sede Inail di Cremona, che ha evidenziato come nel settore della sanità gli infortuni e le malattie professionali interessino essenzialmente i lavoratori over 55. E ha ribadito la necessità per le imprese di adottare sistemi di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro che tengano conto dell’età dei lavoratori.

“Age Management significa anche fare attività di prevenzione ai sensi del Decreto Legislativo 81/2008. Per ridurre i rischi e mantenere costante l’attenzione verso il benessere e la salute della persona lungo tutto l’arco della sua vita lavorativa. Deve essere un campanello di allarme il fatto che molti infortuni gravi interessano i lavoratori più anziani. A questa evidenza concorrono diversi fattori: il lavoratore più avanti con l’età spesso sottovaluta il rischio perché esposto alla cosiddetta overconfidence, ossia un’eccessiva sicurezza. Ha una soglia di attenzione più bassa, fa più fatica ad adattarsi a condizioni climatiche che cambiano, ha difficoltà nell’utilizzare i dispositivi di protezione individuale. Ecco perché anche la formazione sulla sicurezza deve essere contemplata per tutto l’arco della vita lavorativa”, ha spiegato Livella.

Age management e carenza di competenze

Il tema dell’Age Management è stato sviscerato, tra gli altri, anche da Roberto Rovati, della direzione generale del Gruppo Gheron, un nome di riferimento nel settore Rsa. Rovati, in particolare, ha evidenziato la difficoltà crescente di reperire personale, anche non specializzato, per sostituire i dipendenti in età pensionabile. “Nei prossimi anni mancheranno molti lavoratori a bassa qualifica nella fascia di età 35-54 anni, perché anche il saldo migratorio non sarà più sufficiente a colmare il gap”, ha aggiunto.

Come ha sottolineato Germana Scaglioni, per le aziende l’Age Management “non è una questione filosofica, né di letteratura manageriale, piuttosto di necessità”. In che cosa consiste, quindi? Scaglioni lo definisce anche come una “funzione per favorire la collaborazione e lo scambio tra le diverse età”, seguendo i principi della staffetta generazionale, del tutoraggio, della transizione verso la pensione, ossia del coinvolgimento del lavoratore in uscita dal lavoro nel passaggio delle competenze.

In conclusione, un ruolo fondamentale è proprio quello della formazione: “Le imprese hanno una forte responsabilità nella trasformazione produttiva, tenendo conto del cambiamento demografico e generazionale. Costruire una strategia di Age Management tramite la formazione può contribuire a favorire questo cambiamento demografico”, conclude Scaglione.

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