Tempo determinato, cosa cambia

Causali, stagionalità e periodo di prova: sono queste alcune delle novità in tema di contratti a termine, destinate ad avere impatto anche sull’occupazione

0
162
Novità tempo determinato

di Mario Pagano | Il nuovo anno si è aperto con importanti novità in materia di tempo determinato.

Il legislatore, infatti, al fotofinish, con due distinti testi normativi, ossia il decreto mille proroghe (DL 202/2024) e il tanto atteso “Collegato Lavoro” (L. 203/2024), pubblicati in Gazzetta ufficiale in rapida successione entro fine anno, ha introdotto una serie di novità in tema di contratti a termine. Destinate ad avere impatto anche in una logica occupazionale.

Da una parte è stata prorogata la possibilità di apporre al contratto una causale direttamente concordata tra le parti. Dall’altra è stata normata (e ampliata) la definizione di attività stagionali contrattuali e finalmente arricchita, in termini correttivi, la disposizione relativa al periodo di prova per i contratti a tempo determinato.

Tempo determinato: più apertura sulle causali

Partiamo dalla norma probabilmente di maggior interesse, soprattutto per i risvolti pratici, aumentando, verosimilmente, le possibilità di stipulare contratti di lavoro a tempo determinato. Da quando il “Decreto Dignità” (DL 87/2018) ne ha riscritto la disciplina, superando la logica di una completa acausalità, il contratto a termine, superiore ai 12 mesi, può essere stipulato, prorogato o rinnovato solo in presenza di legittime causali.

Parliamo delle ragioni giustificatrici che permettono di derogare alla regola generale, che vede il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato quale forma comune di rapporto di lavoro. L’eccezione alla regola, costituita dall’apposizione di un termine finale alla durata del contratto, è legittima (in linea con i consolidati orientamenti comunitari) in presenza di una causale, che nel tempo il legislatore ha più volte rimodulato.

Con la prima novella, introdotta dal citato DL 87/2018, il contratto poteva avere una durata superiore ai dodici mesi, ma comunque non eccedente i ventiquattro mesi, solo in presenza di almeno una delle seguenti condizioni:

  • esigenze temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività, ovvero esigenze di sostituzione di altri lavoratori;
  • esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell’attività ordinaria.

Complici le discipline emergenziali legate alla pandemia che avevano, seppure temporaneamente, reintrodotto una minima acausalità, il legislatore con il DL 48/2023, constatando la difficoltà pratica operativa di una disciplina condizionata da causali di difficile interpretazione e foriere di possibile contenzioso, ha ridisegnato, ancora una volta, lo schema normativo a supporto del contratto a tempo determinato. Con un ritorno al passato e con un’apertura alle parti sociali.

Ferma restando la acausalità nei primi 12 mesi e confermando nel contempo anche la causale per ragioni sostitutive, l’art. 19 comma 1 lett. a) del D.Lgs. 81/2015 prevede, innanzitutto, che il contratto possa avere una durata superiore ai dodici mesi, ma comunque non eccedente i ventiquattro, solo nei casi previsti dai contratti collettivi di cui all’articolo 51 del medesimo decreto. Parliamo, in questo caso, dei contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. E dei contratti collettivi aziendali stipulati dalle loro rappresentanze sindacali aziendali ovvero dalla rappresentanza sindacale unitaria. In altre parole, i contratti “leader”.

Quando scatta il termine superiore a 12 mesi

Accanto a questa prima possibilità il legislatore ha, tuttavia, affiancato un’ulteriore ipotesi che, almeno ab origine, doveva avere una natura meramente transitoria. Ma che nel tempo sta diventando strutturale, come conferma la stessa novità introdotta dal Milleproroghe 2025. La successiva lett. b) del citato comma 1 dell’art. 19 prevede, infatti, che, in assenza delle previsioni di cui alla lettera a), nei contratti collettivi applicati in azienda, è possibile apporre un termine superiore ai dodici mesi ed entro i ventiquattro, per esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva individuate dalle parti.

In buona sostanza se il contratto collettivo applicato dal datore di lavoro non individua i casi di apposizione del termine (circostanza tutt’altro che infrequente), le parti possono autonomamente inserirli in fase di stesura del contratto individuale. Tutto ciò a condizione che l’eccezione rientri, un po’ come avveniva ai tempi del “causalone” di cui al D.Lgs. 368/2001, nelle esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva. Tale ultimo regime, all’atto della sua introduzione, doveva concludersi il 30 aprile 2024.

Successivamente, il decreto Milleproroghe 2024 (DL 2015/2023), ancora prima della scadenza, ha allungato il termine, portandolo al 31 dicembre 2024. Ciò al fine di dare più tempo alle parti sociali per individuare le causali. Ora il legislatore, con il DL 202/2024, questa volta in extremis, ha spostato ancora una volta il termine di un intero anno, individuando la nuova scadenza nel 31 dicembre 2025. Pertanto, per tutto il 2025, se il Ccnl applicato non contiene una disciplina ad hoc per le causali del contratto a termine, lo stesso potrà, comunque, essere stipulato individuando nel singolo contratto, sottoscritto tra le parti, una ragione di carattere tecnico, organizzativo o produttivo.

Le attività di natura stagionale

Come anticipato, anche il recente “Collegato Lavoro” (L. 203/2024) ha introdotto due importanti novità sempre in tema di tempo determinato. La prima ha, ancora una volta, una certa attinenza con le causali, in quanto viene fornita un’interpretazione autentica della definizione di attività stagionali, contenuta all’art. 21 comma 2. Come noto, la natura stagionale dell’attività consente di accedere a un regime derogatorio dei contratti a termine particolarmente vantaggioso.

I contratti aventi natura stagionale, infatti, non sono soggetti a causali e a limiti numerici, non hanno un limite di durata massima (derivante dalla somma di più contratti rinnovati nel tempo) che, quindi, può andare anche oltre i 24 mesi ordinari o il più lungo termine, previsto dalla contrattazione collettiva. Inoltre, non vi è obbligo di rispettare lo stop and go, ossia di attendere 10 o 20 giorni tra un contratto a termine e un altro, per contratti rispettivamente fino a sei o oltre sei mesi.

A questo punto diviene essenziale capire cosa può ritenersi stagionale. In tal senso il citato art. 21 co. 2 si riporta, innanzitutto, alle attività stagionali fissate con decreto del Ministero del lavoro. Allo stesso tempo, tuttavia, è data la possibilità alla contrattazione collettiva di individuare nuove ipotesi. Infine, sono fatte salve, in attesa dell’adozione del decreto ministeriale, le casistiche previste dal Dpr 1525/63.

L’art. 11 della L. 203/2024, di fatto, amplia la portata di tale disposizione, attraverso una sua interpretazione autentica (e quindi verosimilmente anche retroattiva). Secondo la quale rientrano nelle attività stagionali, oltre a quelle indicate dal citato Dpr 1525/63, anche le attività organizzate per fare fronte a intensificazioni dell’attività lavorativa in determinati periodi dell’anno. Nonché a esigenze tecnico-produttive o collegate ai cicli stagionali dei settori produttivi o dei mercati serviti dall’impresa, secondo quanto previsto dai contratti collettivi di lavoro. Ivi compresi quelli già sottoscritti alla data di entrata in vigore della presente legge, stipulati dalle organizzazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative nella categoria, ai sensi dell’articolo 51 D.Lgs. 81/2015.

Un orientamento con valenza normativa quanto mai necessario, attesi i diversi orientamenti della Cassazione (cfr. Cass. 9243/2023, 16313/2024 e da ultimo 25393/2024), che, attenendosi al mero dato letterale, contenuto nel comma 2 dell’art. 21, ha sposato una visione molto più rigorosa e restrittiva della stagionalità. Ribaltando piuttosto sulla causale contrattuale della lett. a) dell’art 19 la possibilità di far fronte ai picchi di attività, aventi una natura ricorrente.

La durata del periodo di prova

Infine, l’art. 13 interviene sull’art. 7 del DL 104/2022, integrando la disciplina, per certi versi lacunosa, della durata del periodo di prova per i contratti a termine. In linea generale, tale ultima disposizione, al comma 1, stabilisce che nei casi in cui è previsto il periodo di prova, questo non può essere superiore a sei mesi, salva la durata inferiore prevista dalle disposizioni dei contratti collettivi.

In tema di contratti a tempo determinato, il successivo comma 2, nella sua versione originaria si limita ad affermare che, nel rapporto di lavoro a tempo determinato, il periodo di prova è stabilito in misura proporzionale alla durata del contratto e alle mansioni da svolgere in relazione alla natura dell’impiego. Un principio, quello della proporzionalità, più programmatico che concreto, di fatto lasciato all’attuazione (spesso assente) del contratto collettivo applicato o alla libera (e rischiosa) interpretazione delle parti.

L’art. 13, introduce così un nuovo periodo che, finalmente, corre ai ripari. Innanzitutto, viene sempre fatta salva una diversa disciplina, prevista dai contratti collettivi. In difetto, cosa che più conta, vengono opportunamente forniti dei criteri normativi, certi e oggettivi, ai quali ancorare la durata del periodo di prova. Lo stesso è stabilito in un giorno di effettiva prestazione per ogni quindici di calendario a partire dalla data di inizio del rapporto di lavoro, ma con degli ulteriori limiti.

In ogni caso, infatti, la durata del periodo di prova non può essere inferiore a due giorni né superiore a quindici giorni, per i rapporti di lavoro aventi durata non superiore a sei mesi. E a trenta giorni per quelli aventi durata superiore a sei mesi e inferiore a dodici mesi. Va, infine, ricordato che resta fermo l’ultimo periodo del medesimo comma 2 dell’art. 7, secondo il quale in caso di rinnovo di un contratto di lavoro per lo svolgimento delle stesse mansioni, il rapporto di lavoro non può essere soggetto a un nuovo periodo di prova.


* Mario Pagano è collaboratore della Direzione Centrale Coordinamento Giuridico dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro. Le considerazioni esposte sono frutto esclusivo del pensiero dell’autore e non hanno carattere impegnativo per l’amministrazione di appartenenza.

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here