Dicono da tempo che il coaching, tra l’altro, induce cambiamenti comportamentali rivolti al miglioramento delle relazioni tra persone che collaborano: capi verso dipendenti, colleghi tra di loro, partecipanti di gruppi diversi, addirittura divergenti. Quindi, il coaching dovrebbe portare le persone alla pace relazionale, al benessere nell’ambiente di lavoro, alla collaborazione proficua e motivante.
Poniamo il caso di una persona che ama vivere veloce, sempre di fretta, sempre con la mente al passo successivo, capace di agire efficacemente su fronti diversi. Uno dei suoi colleghi (o collaboratori) è invece una persona riflessiva, che prima del prossimo passo vuole essere sicura che quello che sta muovendo sia concreto, che agisce sul qui e ora prima di attivarsi verso il dopo.
Il primo inventa mille azioni alla volta, magari a discapito della precisione, favorendo la quantità e il movimento, ottenendo in ogni caso molti risultati utili. Il secondo appare lento, ma è inesorabile; invece della quantità privilegia la qualità; si muove prendendo tempo ma alla fine produce risultati visibili. Entrambi efficaci, no?
Accordi che scarseggiano
Come far funzionare una relazione professionale tra due elementi così diversi? Vogliamo aggiungere magari che uno è uomo e l’altra è donna (o viceversa)? O che uno è italiano e l’altro straniero? Uno è giovane, l’altro è più maturo? Le diversità diventano esponenziali. Vogliamo poi inserire nel gruppo altri elementi con caratteri, storie ed esperienze differenti? Certo, tutto il mondo è così, fatto di comportamenti, attitudini, obiettivi e volontà mai simili, tranne alcuni casi privilegiati. Perlopiù, l’accordo scarseggia.
L’azienda dunque attiva percorsi di coaching a matrice: sui singoli, con obiettivi comportamentali precisi, favorendo le riparazioni; sui piccoli gruppi – magari trasversali – che hanno compiti in comune; sui gruppi più numerosi – spesso internazionali – che hanno obiettivi divergenti e perpendicolari. Grande entusiasmo, all’apparenza, ottimistica partecipazione, buon livello di impegno – tranne qualche defezione per “precedenti o imprescindibili impegni altrove”; tranne qualche annullamento dell’ultimo minuto “perché in questo periodo abbiamo crisi finanziarie da risolvere, il mercato risponde male e non fatturiamo abbastanza”; tranne alcuni ritardi o spostamenti di date o procrastinamenti che annacquano l’intero percorso di coaching.
Arriviamo alla fine stremati, ma convinti che il cambiamento c’è, lo vediamo dai “posso darti un feedback?”, “avrei una situazione da condividere” e altre frasi imparate durante le sessioni sempre più affrettate e svolte in luoghi improbabili (ad esempio: camminando nei boschi, nella lounge dell’ennesimo aeroporto, in taxi o via Skype in movimento – possibile, eh!, non sempre adeguato). Dai, esagero. Ma neanche tanto.
Fare bene non è impossibile
Il coaching funziona se è fatto bene, il cambiamento avviene se il coachee è immerso nel suo desiderio di capire e di modificarsi. È come smettere di fumare o dimagrire: se ne sono convinta e lo voglio fare davvero, lo farò, e non tornerò indietro perché avrò capito e adottato come mie le convinzioni sul benessere fisico che deriva dal cambiamento che ho deciso di attuare. Il coaching produce cambiamento e miglioramento comportamentale, fa funzionare bene le relazioni professionali (e pure personali, se vogliamo dirla tutta) quando la persona coinvolta assume su di sé la responsabilità di renderlo reale e duraturo nel tempo. Volere è potere: frase ritrita, sempre attuale.
Va bene, ho capito che devo cambiare qualche atteggiamento, qualche modo di rapportarmi agli altri. Posso farlo anche da solo, no? Eh già! Sì, in teoria. In pratica l’auto-cambiamento regge poco per via di quell’elemento fondamentale che è il feedback. Chi mi dirà se sto migliorando e quanto? Chi mi darà dei feedback sinceri, super partes, senza farli apparire come pugni in faccia? Chi mi aiuterà a identificare le azioni per sperimentare il mio nuovo agire e i suoi risultati? Un bravo coach, e chi altrimenti!
Percorsi imposti? No, grazie
I percorsi imposti, o peggio ancora quelli punitivi (siccome non sei collaborativo nel team, allora ti affibbio un coach), quelli che il management aziendale attiva senza dir niente a nessuno (abbiamo pensato di farvi un regalo, un percorso formativo estremamente innovativo – e costoso – che vi porterà a lavorare fantasticamente meglio, in minor tempo e con risultati sorprendenti), sono destinati a essere presto dimenticati, a lasciare segni invisibili, addirittura a procurare fastidio tra le persone che hanno comunque risultati numerici e immediati da produrre.
Da considerare, inoltre, la paura del cambiamento (“sì, posso provarci, e se poi non riesco? o funziona male? o faccio brutta figura?), oltre alla tensione alla comodità (ho sempre fatto così e finora non è andata male: perché mai dovrei cambiare?).
Ultima fondamentale considerazione: per cambiare ci vuole tempo. Un cambiamento non arriva dal giorno alla notte, né in pochi giorni. Ci vuole il tempo per comprenderlo, per decidere, per provarci, per allenarsi, per adottarlo, per farselo piacere, per entusiasmarsene, per renderlo proprio, per continuare l’allenamento e farlo diventare definitivo. In attesa del prossimo desiderio (o necessità) di cambiamento.