Apprendistato, “mon amour”

L’apprendistato costituisce oggi l’unica tipologia contrattuale capace di garantire flessibilità dal punto di vista giuridico e convenienza dal punto di vista economico. Per questo risulta molto amato dai datori di lavoro.

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apprendistato

di Luigi Beccaria* |

A dispetto di tutti gli incentivi, agevolazioni e sgravi sulle assunzioni introdotti dal Legislatore al fine di favorire l’instaurazione di contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato, quello di apprendistato resta sempre “buono per tutte le stagioni”, continuando a costituire la tipologia contrattuale prediletta dagli imprenditori.

Le ragioni di tale preferenza, che questo contributo si propone di analizzare, sono molteplici, e afferiscono a diversi profili: innanzitutto, analizzando la questione sotto un profilo strettamente economico, il contratto di apprendistato si presenta come più conveniente rispetto a uno a tempo indeterminato “sgravato”, in quanto, a (tendenziale) parità di riduzione contributiva, il costo del lavoro resta più basso, sia in termini di retribuzione diretta (essendo previsti alternativamente l’inquadramento fino a due livelli inferiori per il lavoratore assunto come apprendista, ovvero un progressivo aumento percentuale della retribuzione fino al raggiungimento del livello cui il lavoratore aspira, a seconda del Ccnl applicato dall’azienda), sia indiretta (in considerazione del fatto che l’apprendista, proprio per avere una retribuzione inferiore, per tutta la durata della fase formativa matura, ad esempio, un importo minore a titolo di Trattamento di Fine Rapporto, oltre ad avere una base imponibile inferiore ai fini dell’autoliquidazione Inail).

Ma, al di là degli aspetti di convenienza economica più o meno pronunciata, esiste, nelle pieghe della normativa, una ragione di carattere più strettamente giuridico, meno evidente eppure non meno importante, sulla quale ritengo opportuno puntare l’attenzione del lettore.

Un’anomalia del nostro ordinamento

È necessario premettere che l’apprendistato, pur configurandosi quale contratto “a causa mista”, nel quale non si ha un semplice scambio tra attività lavorativa e correlata retribuzione, intervenendo nello stesso delle finalità formative (che si estrinsecano sia nella formazione cosiddetta “on the job” sia in quella trasversale), è qualificato dalla legge come un contratto a tempo indeterminato, intendendosi con ciò che, allo scadere della fase formativa, lo stesso si converte ipso iure nella cosiddetta “forma comune di rapporto di lavoro”.

L’aspetto che viene spesso trascurato, e che può porsi quale effettiva ragione della predilezione imprenditoriale nei confronti della tipologia contrattuale in esame, consiste nella possibilità, astrattamente posta in favore di entrambe le parti, ma che chiaramente va a vantaggio della parte datoriale, di recedere al termine della fase formativa senza dover motivare in alcun modo il recesso, con l’unico obbligo di fornire il preavviso.

È chiaro che tale previsione rappresenta una significativa anomalia nel nostro ordinamento, in cui il recesso da parte datoriale, nell’ottica di proteggere la cosiddetta “parte debole” del rapporto di lavoro, deve essere sempre fondato su un giustificato motivo ovvero una giusta causa; le deroghe presenti nell’ordinamento sono tutte connotate da una ratio legis evidente.

Apprendistato: alcune deroghe

Si possono richiamare, a titolo esemplificativo, il recesso esercitato nei confronti di lavoratori che hanno già maturato i requisiti per l’accesso ai trattamenti pensionistici (in cui vengono meno le principali finalità “protettive” della normativa), o i lavoratori appartenenti alla categoria dei dirigenti (i quali, in considerazione del loro status di alter ego dell’imprenditore, e della entità della loro retribuzione, si trovano in una posizione radicalmente diversa rispetto a quella del normale lavoratore subordinato).

Stesso discorso si potrebbe applicare agli sportivi professionisti, tenendo conto che la legge che ne stabilisce la disciplina, la n. 91/1981, è stata scritta “su misura” per i calciatori professionisti, e pertanto nell’idea del legislatore figuravano dei soggetti con un reddito molto elevato e con un’elevatissima capacità di ricollocarsi nel mercato (al punto che, empiricamente, si rileva come, almeno a livello calcistico, attualmente la posizione di forza nella dinamica negoziale appartiene al calciatore – anche e soprattutto per il tramite dell’agente – più che alla società/datore di lavoro).

La previsione più similare contenuta nell’ordinamento è quella del recesso durante il periodo di prova, anch’esso esercitabile ad nutum (e anch’esso astrattamente posto in favore di ambedue le parti del rapporto di lavoro, sebbene una banale analisi della prassi confermi come anche questa fattispecie sia de facto favorevole al datore di lavoro); non si possono, tuttavia, sottovalutare le differenti implicazioni dal punto di vista per così dire “psicologico” relative al lavoratore, atteso che, per legge, il periodo di prova non può mai eccedere la durata di sei mesi (ipotesi peraltro circoscritta a soggetti che ricoprono posizioni apicali), mentre, come noto, l’apprendistato ha una durata tipica pari a tre anni, suscettibile di essere elevata fino a cinque anni in ipotesi di natura di impresa artigiana del datore di lavoro (contando anche che spesso l’apprendista proviene da un pregresso periodo di stage).

È evidente che l’impatto psicologico del recesso non potrà essere il medesimo dopo che è trascorso un periodo di anni, invece che di mesi; inoltre, la ratio legis del licenziamento durante il periodo di prova consiste evidentemente nella reciproca necessità di valutare l’idoneità lavorativa del prestatore e la serietà dell’azienda; mentre non si capisce quale sia la finalità della previsione in esame, che in concreto finisce spesso col trasformarsi in una “prova lunga”, ovvero nell’occasione per sostituire l’apprendista con un nuovo apprendista e far ripartire il ciclo dell’agevolazione contributiva, senza però vincolarsi sine die ad alcun soggetto specifico.

Apprendistato: le forme di abuso

La legge prevede certamente dei contrappesi finalizzati ad evitare tali forme di abuso, sia sotto forma di incentivi sia di divieti, quali il prolungamento dell’agevolazione contributiva per l’anno successivo alla fine del periodo formativo e la cosiddetta clausola di stabilizzazione (che fissa delle percentuali non eccedibili entro le quali gli apprendisti devono essere confermati in servizio una volta trascorsa la fase formativa), ma né l’uno né l’altro contrappeso appaiono sufficienti a scongiurare una pluralità di casistiche di recessi ingiustificati esercitati ai danni di soggetti che per anni hanno prestato servizio presso la medesima organizzazione (peraltro percependo una retribuzione inferiore, sia pur motivata dalle sopraesposte finalità formative).

Va sottolineato che questa previsione, alquanto anomala, si pone in totale contrapposizione con tutto il resto della normativa giuslavoristica, nonché con i principali orientamenti giurisprudenziali, del tutto informati al principio del favor lavoratoris, rischiando di configurare un vulnus dell’ordinamento, potenzialmente incidente solo sulla fascia più giovane della popolazione (quella, appunto, che rientra nelle fasce anagrafiche previste per l’apprendistato)

Naturalmente, tale vulnus sarebbe perfettamente giustificato in un mercato del lavoro improntato alla concreta e corretta applicazione del concetto di flexicurity; ma nel mercato attuale, particolarmente ingessato e improntato all’assistenzialismo, costituisce una lacuna significativa.

La riduzione del costo del lavoro

Qual è la soluzione? A mio avviso, non risiede tanto nella modifica della previsione de qua, quanto in un ripensamento globale del sistema indirizzato a una significativa diminuzione tout court del costo del lavoro, che renda l’apprendistato una tipologia contrattuale sì conveniente, ma solo in funzione delle finalità formative dalla stessa attuate; opportuno e importante sarebbe ridurre il cuneo fiscale a ogni livello, evitando che il costo di un lavoratore (qualunque lavoratore) doppi il suo netto in busta, e scongiurando così l’ipotesi in cui il contratto di apprendistato rappresenti l’unico e ultimo baluardo di flessibilità relativamente al personale dipendente (prima, naturalmente, che intervengano impugnazioni, con i conseguenti costi in termini sia economici sia temporali connessi alla conciliazione ovvero alla più dispendiosa ipotesi di contenzioso giudiziale), il tutto a scapito dei soggetti più giovani.

Considerando la politica economica definita come “espansiva” della manovra varata a dicembre del 2018, sorge spontaneo domandarsi perché le risorse impiegate, invece di venire destinate a fini esclusivamente assistenzialistici (come nel caso del reddito di cittadinanza), non siano state utilizzate per ridurre in modo significativo il costo del lavoro a tutti i livelli.

Sotto gli attuali chiari di luna, risulta chiaro che, al di là delle tecniche “escapologiche”, alcune border line (come l’abuso dello strumento del tirocinio), altre dichiaratamente contra legem (il lavoro nero) attuate dagli imprenditori per ridurre i costi, l’apprendistato costituisce, per tutti i motivi che si sono esposti, l’unica tipologia che garantisce simultaneamente flessibilità dal punto di vista giuridico e convenienza dal punto di vista economico.


* Luigi Beccaria è partner di Studio Elit e collabora con l’Università degli Studi di Milano
e con l’Università Cattolica del Sacro Cuore


Cos’è l’apprendistato e come funziona?

L’apprendistato è un contratto a tempo indeterminato, finalizzato all’occupazione dei giovani, che si caratterizza per il contenuto formativo: l’azienda è obbligata a trasmettere le competenze pratiche e le conoscenze tecnico-professionali attraverso un’attività formativa.

Il contratto si rivolge ai giovani nella fascia d’età 15-29 anni, ma esistono delle differenze in base ai tre tipi di apprendistato:

• Apprendistato per la qualifica e il diploma professionale, il diploma di istruzione secondaria superiore e il certificato di specializzazione tecnica superiore.
• Apprendistato professionalizzante o contratto di mestiere.
• Apprendistato per l’Alta formazione e la Ricerca.

La durata minima del contratto di apprendistato è di 6 mesi. Il livello di inquadramento contrattuale non potrà essere inferiore di due livelli rispetto a quello del lavoratore che svolge la sua stessa mansione.

Al termine del periodo di formazione, l’impresa può stabilire se proseguire il rapporto di lavoro oppure recedere, fornendo il preavviso secondo i termini stabiliti dal contratto collettivo.


 

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