Orario di lavoro e sicurezza

Il rispetto dell’orario di lavoro, delle pause, dei riposi e delle ferie, rappresenta la prima tutela del lavoratore.

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donna tra due orologi

di Mario Pagano*

Tra le numerose discipline poste a tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori una di quelle che troppo spesso passa inosservata, ma che può avere un impatto non indifferente è sicuramente quella sull’orario di lavoro.

Nel nostro ordinamento il testo di riferimento è il D.Lgs. n. 66/2003, che ha dato attuazione a due fondamentali direttive comunitarie la 93/104/CE e la 2000/34/CE. Le stesse hanno fissato i principi cardine in materia di organizzazione dell’orario di lavoro, con particolare riferimento ad aspetti fondamentali per la salvaguardia della salute e sicurezza dei lavoratori, attinenti l’orario settimanale, i riposi giornalieri e settimanali, le pause giornaliere, il lavoro notturno e le ferie annuali.

La disciplina in materia di riposo settimanale

La stretta correlazione tra orario di lavoro e salute e sicurezza dei lavoratori è confermata anche dalla Giurisprudenza. Partiamo, ad esempio, dalla disciplina in materia di riposo settimanale. Secondo l’articolo 9 del D.Lgs. 66/2003 il lavoratore ha diritto ogni 7 giorni a un periodo di riposo di almeno 24 ore consecutive, di regola in coincidenza con la domenica, da cumulare con le ore di riposo giornaliero.

Sul punto la Cassazione, con sentenza n. 1532 del 22 aprile 2008 ha chiarito che la mancata concessione del riposo settimanale è illecita poiché in contrasto con l’art. 36 della Costituzione e, in quanto tale, non può essere validamente disciplinata né da clausole di contratto collettivo o individuale, che sarebbero nulle, né dalla legge, che sarebbe sospettabile di illegittimità costituzionale. La mancata concessione del riposo, inoltre, dà luogo ad una presunzione assoluta di danno di natura contrattuale, perché frutto di una scelta organizzativa, contrastante con norme imperative, adottata dal datore di lavoro, rispetto alla quale l’eventuale adesione del lavoratore non può avere rilievo di fatto concorrente alla produzione del danno stante l’irrinunciabilità del diritto leso. La soppressione del riposo provoca, comunque, un danno anche se il riposo non viene soppresso per intero o se il suo mancato godimento non si verifica tutte le settimane. Del resto, se il riposo settimanale è soppresso per intero il danno è maggiore ma ciò non significa che anche la soppressione parziale non provochi un danno, sia pure supportato dalla percentuale del riposo soppresso. Il danno – spiega la Suprema Corte – ha natura risarcitoria e non retributiva in quanto è rappresentato dalla perdita del riposo e dalla conseguente usura psicofisica.

Il riposo giornaliero

Nel contempo, l’articolo 7, in  tema  di  riposo giornaliero stabilisce espressamente che, ferma restando la durata normale dell’orario settimanale, il lavoratore ha diritto a 11 ore di riposo consecutivo ogni 24 ore.

Inoltre, il riposo giornaliero deve essere fruito in modo consecutivo, fatte salve le attività caratterizzate da periodi di lavoro frazionati durante la giornata o da regimi di reperibilità. Dal punto di vista pratico, stante il tenore delle due norme appena esaminate, occorrono due considerazioni. La prima è che risulta necessario il cumulo del riposo settimanale con quello giornaliero, con la conseguenza che le 24 ore di riposo settimanale devono aggiungersi alle 11 di riposo giornaliero, per un totale di 35 ore complessive.

Inoltre, per la verifica del riposo giornaliero, come chiarito dallo stesso Ministero con interpello del 25 febbraio 2006, non va dimenticato che la norma fissa un obbligo di riposo consecutivo di 11 ore per ogni periodo di 24 ore, vale a dire per ogni periodo di 24 ore a partire dall’inizio della prestazione lavorativa. In altre parole, l’arco di 24 ore, da prendere a riferimento per la verifica del rispetto del riposo giornaliero, decorre dall’inizio dell’attività lavorativa in questione. Esemplificando, se il lavoratore inizia a lavorare alle ore 8 del lunedì, a ritroso dalle 8 di martedì devono essere presenti almeno 11 ore di non lavoro e, per l’effetto, il lavoratore dovrà necessariamente smettere di lavorare alle ore 21 del lunedì.

La circolare 8/2005 dello stesso Dicastero del Lavoro precisa, infatti, che “nel periodo di riposo non si computano i riposi intermedi, nonché le pause di lavoro di durata non inferiore a dieci minuti e complessivamente non superiore a due ore, comprese tra l’inizio e la fine di ogni periodo della giornata di lavoro, durante le quali non sia richiesto alcun tipo di prestazione lavorativa in quanto non si tratta di un periodo di riposo continuativo”.

La disciplina in materia di ferie

Un altro ruolo fondamentale nella tutela del lavoratore è riservato all’istituto delle ferie, regolato dall’articolo 10. Secondo tale disposizione, fermo restando quanto previsto dall’articolo 2109 del codice civile, il prestatore di lavoro ha diritto a un periodo annuale di ferie retribuite non inferiore a quattro settimane. Tale periodo, salvo quanto previsto dalla con- trattazione collettiva o dalla specifica disciplina riferita ad alcune particolari categorie, va goduto per almeno due settimane, consecutive in caso di richiesta del lavoratore, nel corso dell’anno di maturazione e, per le restanti due settimane, nei 18 mesi successivi al termine dell’anno di maturazione.

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 20836 del 11 settembre 2013, confermata dalla più recente pronuncia n. 17371 del 27 giugno 2019, ha precisato che in base a consolidati e condivisi orientamenti, il diritto alle ferie nel nostro ordinamento gode di una tutela rigorosa, di rilievo costituzionale, visto che l’art. 36 Cost., comma 3, prevede testualmente che “il lavoratore ha diritto al riposto settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi”. All’interno della più ampia categoria dei riposi lavorativi (pause intermedie, riposo giornaliero, settimanale ed annuale) quello feriale riveste una più accentuata dimensione personalistica ed esistenziale in quanto rivolto – più delle altre tipologie di riposo – non solo al recupero delle energie psicofisiche spese dal lavoratore per l’esecuzione della prestazione, ma anche a consentire alla persona di poter coltivare interessi morali e materiali, personali e sociali di natura extralavorativa, fruendo di un periodo tempo libero retribuito. Le ferie rappresentano, perciò, un diritto che va correlato alla persona che al lavoratore e vanno riguardate più in funzione della qualità della vita che del rispetto di equilibri contrattuali.

La stessa Corte Costituzionale, con sentenza n. 543/1990 ha, ulteriormente affermato come non vi sia dubbio che la disposizione contenuta nel terzo comma dell’art. 36 della Costituzione garantisce la soddisfazione di primarie esigenze del lavoratore, dalla reintegrazione delle sue energie psico-fisiche allo svolgimento di attività ricreative e culturali, che una società evoluta apprezza come meritevoli di considerazione.

Il divieto di monetizzazione

Il corollario di tali principi è dato dal conseguente divieto di monetizzazione delle ferie, stabilito dal comma 2 del medesimo articolo 10.

Con sentenza n. 3132 del 20 settembre 2018, la Suprema Corte ha affermato che il divieto di monetizzazione delle ferie è” finalizzato a garantirne il godimento effettivo che sarebbe vanificato qualora se ne consentisse la sostituzione con un’indennità, la cui erogazione non può essere ritenuta equivalente rispetto alla necessaria tutela della sicurezza e della salute. Da ciò discende che l’eccezione al principio, concernente l’inapplicabilità del predetto divieto in caso di risoluzione del rapporto di lavoro, opera nei soli limiti delle ferie non godute relative al periodo ancora pendente al momento della risoluzione in questione, e non consente la monetizzazione di quelle riferibili agli anni antecedenti”.

Il lavoro straordinario

Un ultimo aspetto va riservato anche alla regolamentazione della durata massima della prestazione lavorativa, rinvenibile nell’articolo 4. Tale disposizione precisa come spetti ai contratti collettivi di lavoro stabilire la durata massima settimanale dell’orario di lavoro. Tuttavia, la durata media dell’orario di lavoro non può in ogni caso superare, per ogni periodo di sette giorni, le 48 ore, comprese le ore di lavoro straordinario. Un limite che, in ottica di flessibilità, viene calcolato come media, facendo riferimento a un periodo non superiore a quattro mesi, ovvero al maggior periodo di sei o dodici mesi, fissato sempre dalla contrattazione collettiva.

Anche su tale aspetto la Cassazione, con sentenza n. 12540 del 16 maggio 2019 ha ammonito che “la prestazione lavorativa “eccedente”, che supera di gran lunga i limiti previsti dalla legge e dalla contrattazione collettiva e si protrae per diversi anni, cagiona al lavoratore un danno da usura-psico fisica, di natura non patrimoniale e distinto da quello biologico, la cui esistenza è presunta nell’an in quanto lesione del diritto garantito dall’articolo 36 della Costituzione, mentre ai fini della determinazione occorre tenere conto della gravità della prestazione e delle indicazioni della disciplina collettiva intesa a regolare il risarcimento de qua”.

Infine si considerino anche l’articolo 5, che in tema di lavoro straordinario stabilisce un limi- te legale massimo al ricorso a prestazioni di lavoro straordinario pari a 250 ore annuali, fatte salve le diverse disposizione dei contratti collettivi e l’articolo 13, secondo il quale l’orario di lavoro dei lavoratori notturni non può superare le otto ore in media nelle ventiquattro ore, salva l’individuazione da parte dei contratti collettivi, anche aziendali, di un periodo di riferimento più ampio sul quale calcolare come media il suddetto limite.


*Mario Pagano è componente del Centro Studi Attività Ispettiva dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro. Le considerazioni espresse nell’articolo sono frutto esclusivo dell’opinione dell’autore e non impegnano l’amministrazione di appartenenza.

1 COMMENT

  1. Sono un medico, impiegato a Roma, nella continuità assistenziale ex medicina dei servizi.
    Convinto che un limite di lavoro massimo lavorativo debba essere rispettato quale norma nell’ambito della sicurezza sul lavoro ma, chi compila i turni non vuole saperne. Come posso argomentare la necessità di intervalli di riposo adeguati e, a chi debbo rivolgermi , in asl e fuori?
    La maggior parte dei colleghi preferisce ignorare limiti e accorpare i turni.
    -La 66 del 2003 può essere inquadrata nell’ambito “sicurezza lavoro”? Ho provato a leggere direttamente la legge in questione ma , francamente la trovo confusa e i limiti delle 12 ore + eventuali altre 3 in caso di necessità non riesco a evincerli in modo chiaro.
    -Si aggiunga poi che nel CCN nel merito della C.A. non si fa riferimento ai suddetti limiti orari.

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