di Luigi Beccaria* |
Come è noto, l’ormai superato governo “giallo-verde”, tra le varie previsioni contenute nella controversa legge di bilancio (l. 145/2018) emanata a dicembre dell’anno scorso, contraddistinta da un’impronta di politica economica espansiva piuttosto inconsueta per la tradizione culturale del nostro Paese (almeno da quando fa parte dell’Unione Europea) ha introdotto un’estensione del cosiddetto regime forfettario, che prevede la conservazione di tutte le agevolazioni dal punto di vista burocratico, tra cui l’esenzione dall’applicazione dell’Iva con i relativi versamenti mensili o trimestrali, l’assenza dell’obbligo di tenuta delle scritture contabili e, soprattutto, la disapplicazione di tutto il variegato panorama di imposte (Irpef, addizionali Irpef, Irap), attraverso il cui sistematico e indefesso impiego il legislatore è solito rabbuiare le giornate degli imprenditori; è infine prevista un’esclusione dai parametri degli studi di settore, sul cui impatto si tornerà all’interno del presente contributo.
L’intersezione delle due direttrici costituite dalla diminuzione degli adempimenti e dalla riduzione del carico fiscale (peraltro significativa e univoca, nel senso che non subisce un contrappeso nascosto in altre pieghe del sistema, a renderne algebricamente nullo il beneficio, come invece accaduto in altre occasioni in cui un’apparente diminuzione della pressione fiscale nascondeva in modo larvato un corrispondente aumento in altri settori dell’ordinamento tributario) rappresenta il coronamento di un sogno dell’elettorato leghista, soprattutto quello della prima ora (dunque quello precedente alla svolta, principalmente finalizzata all’acquisizione di un consenso il più ampio possibile, voluta da Matteo Salvini, che, occorre ricordare, ha avallato, sia pure in un’ottica di scambio politico con il Movimento Cinque Stelle, all’epoca “co-azionista” di governo, l’introduzione del Reddito di Cittadinanza, vale a dire un istituto che si pone ideologicamente in grave contrapposizione con i desiderata del ceto di coloro che lavorano in modo autonomo e che hanno quali priorità proprio la semplificazione e la diminuzione del cuneo fiscale).
Vantaggi diretti e indiretti
Si può indubitabilmente osservare sin da subito che l’estensione dei predetti benefici per tutti coloro che ottengono un reddito contenuto entro la soglia di 65.000 euro annui, più del doppio rispetto a quella precedentemente stabilita nella misura, quasi simbolica, di 30.000 euro, costituisce un indubbio progresso per l’economia e per la qualità di vita dei beneficiari che, oltre ai vantaggi diretti e immediatamente visibili, ne ottengono anche di indiretti (si pensi, a titolo esemplificativo, alla diminuzione delle spese per il commercialista, che non dovrà più effettuare adempimenti quali la liquidazione Iva; così come l’esenzione, che trova la sua eccezione unicamente nelle prestazioni rese verso le pubbliche amministrazioni, dall’obbligo di fatturazione elettronica in vigore dal primo gennaio di quest’anno, che, soprattutto per il ceto artigiano, potrebbe costituire un elemento di complicazione procedurale); resta però da analizzare, trascorso quasi un anno dall’entrata in vigore della norma, quali effetti a lungo termine ne siano scaturiti e quali è ragionevole prevedere che ne scaturiranno.
La prima obiezione
Che la previsione in esame, al di là degli aspetti positivi – che, si ritiene da subito opportuno specificare, risultano, ad avviso di chi scrive, prevalenti – sia suscettibile di produrre degli effetti per così dire “distorti”, molti dei quali probabilmente non erano stati nemmeno previsti dal legislatore, è stato sin da subito evidenziato dagli studiosi più attenti: non è un mistero, ad esempio, che la mancata applicazione dell’Iva sui prezzi dei beni e dei servizi scambiati dagli aderenti al regime forfettario possa integrare una fattispecie di concorrenza sleale rispetto ai competitor non appartenenti allo stesso; a tale obiezione si potrebbe contrapporre, ad ogni modo, l’opposta argomentazione secondo cui i due soggetti posti in competizione nella sostanza non avrebbero ragione di contrapposizione, riferendosi a target qualitativi (talvolta) e quantitativi (sempre) radicalmente diversi, considerando che, empiricamente, un’impresa non aderente al regime forfettario difficilmente eccederà di poco la soglia di 65.000 euro (è legittimo aspettarsi che, in prossimità del raggiungimento della soglia, il commercialista diligente avvisi nel suo interesse l’imprenditore raccomandando l’adozione di comportamenti dilatori quali, ad esempio, la postergazione dell’emissione della fattura all’anno fiscale successivo): si può dire che, nell’eterna problematica della definizione di che cosa sia la “piccola impresa” (definita in modo estremamente generico dall’art. 2083 Cod. Civ.), l’adesione o meno al regime forfettario potrebbe costituire un valido criterio discretivo per l’univoca individuazione della fattispecie.
La seconda obiezione
Un’altra obiezione frequentemente avanzata nei confronti di tale regime fiscale è quella secondo cui esso costituirebbe un’alternativa troppo appetibile rispetto al lavoro subordinato, sulla base della differenza di carico fiscale (5% o 15% di aliquota sostitutiva dell’Irpef in contrapposizione al 23% che rappresenta lo scaglione minimo del lavoro dipendente); secondo i critici del regime forfettario, tale previsione indurrebbe i lavoratori dipendenti a convertire la natura del loro rapporto di lavoro in modo da beneficiare di un trattamento fiscale maggiormente vantaggioso.
Sulla base della pratica lavorativa che svolgo quotidianamente, posso affermare con certezza che di tutte le obiezioni critiche, questa è quella meno fondata: perché se da un lato è vero che il trattamento fiscale strictu sensu è più conveniente, la quantità di diritti (maturazione di ferie e permessi; trattamento di fine rapporto; contributi; leggi sul licenziamento) posti dall’ordinamento in capo al lavoratore subordinato rendono, in seguito a un’ “analisi costi – benefici” (come andava di moda chiamarla ai tempi del governo gialloverde), sempre sconveniente la conversione del rapporto; tale conversione potrebbe tutt’al più essere l’esito di una – tipicamente illegittima – richiesta formulata dal datore di lavoro al dipendente nella prospettiva di diminuire i costi, ma senza dubbio, nella stragrande maggioranza dei casi, mai un dipendente vorrebbe privarsi di tutte le tutele (non solo legislative, ma anche giurisprudenziali in sede di contenzioso, in virtù dell’inattaccabile principio del favor lavoratoris) accordategli dall’ordinamento.
La terza obiezione
Se pertanto queste due principali obiezioni si possono superare, ne resta un’altra, più profonda e più radicale, espressa in modo compiuto da Dario Stevanato, professore dell’Università degli Studi di Trieste, vale a dire quella secondo cui il messaggio (avallato anche appunto dall’esclusione dai controlli relativi agli studi di settore, altro spauracchio parecchio temuto dagli imprenditori) di fondo sarebbe “Così come è fatta, la norma non incentiva le partite Iva a crescere o a investire; il messaggio è “restate piccoli e in cambio nessuno vi disturberà”. In questo modo non si aiuta la nascita di forme più moderne di associazione professionale, anzi si destrutturano quelle che esistono”.
Controbattere ai contenuti di questa lucida analisi, anche per chi si pone a favore delle linee programmatiche che si pongono a fondamento dell’estensione del regime forfettario come il sottoscritto, è oggettivamente più difficile. È come se lo Stato siglasse tacitamente un accordo per cui tollera piccole irregolarità da parte delle imprese al di sotto di una certa soglia dimensionale, imponendo però loro di non eccederla mai, sopprimendo di fatto quella che dovrebbe essere la vocazione naturale di tutte le imprese, quella all’espansione continua.
Un suggerimento di buon senso
Effettuata la diagnosi, ci si chiede quale potrebbe essere la cura: il problema è sicuramente annoso, ma sembrerebbe un suggerimento di buonsenso quello che vada in direzione di diminuire il divario economico e burocratico intercorrente con le partite Iva non a regime forfettario, aumentando le agevolazioni anche per questa categoria, in modo da non soffocare ogni afflato all’ingrandimento da parte degli imprenditori che beneficiano del regime agevolato; va tuttavia osservato che il cambiamento “cromatico” del governo da giallo-verde a giallo-rosso probabilmente comporterà un avvicinamento che andrà in direzione della diminuzione dei vantaggi per gli aderenti al regime forfettario, piuttosto che una riduzione degli svantaggi per gli aderenti alle altre partite Iva.
* Luigi Beccaria è partner di Studio Elit, collabora con l’Università degli Studi di Milano e con l’Università Cattolica del Sacro Cuore