All’inizio dello scorso dicembre ho sostenuto l’esame scritto per l’abilitazione alla professione di avvocato, consistente, come noto ai più sventurati tra i lettori di questa rivista, nella redazione di due pareri (uno su materia regolata dal Codice Civile, l’altro su materia regolata dal Codice Penale) e di un atto giudiziario, su materia a scelta (tra diritto civile, penale e amministrativo) del fortunato candidato.
Il sistema d’esame: un’odissea
Sicuramente, a prescindere dagli esiti e dai seri riverberi che essi sono in grado di produrre sulle vite degli aspiranti candidati, me compreso (a dispetto delle atarassiche dichiarazioni di finto disinteresse con le quali scaramanticamente metto le mani avanti con me stesso e con gli altri), posso dire di aver vissuto un’esperienza umana davvero notevole, iniziata alla vigilia con una coda di tre ore per depositare il trolley, e proseguita nei giorni successivi tra levatacce alle sei del mattino, attese di ore per ascoltare la dettatura delle tracce, in un clima progressivamente sempre più ansiogeno fomentato (oltre che dagli effetti derivanti dall’abuso delle bibite energetiche vanamente assunte nel tentativo di riprendersi dalla predetta levataccia) dagli inossidabili legionari dell’esame, latori di funeste cassandre sull’impossibilità di superamento dello stesso, la cui autorità è direttamente proporzionale al numero di capelli bianchi che ormai impietosamente popola la loro capigliatura (non so proprio dire se tale incanutimento sia dovuto al semplice trascorrere degli anni, oppure – o ancor meglio: ovvero, come amano dire i bistrattati cultori della “scientia iuris” – al plurimo sostenimento di tale massacrante processione).
Mi piacerebbe, mi piacerebbe davvero tanto, esibirmi in un’intemerata sulla – scarsissima – bontà di un sistema d’esame fondato essenzialmente sulla aleatorietà, che costringerà qualche commissario di qualche città lontana qualche centinaia di chilometri dalla mia Milano a dedicare qualche secondo del suo tempo per leggere (anche se i più anziani legionari, con il loro sorriso disincantato e vagamente folle, sembrano fortemente dubitare anche di questa eventualità, teorizzando che il criterio di valutazione risiede unicamente nella pura casualità) ciascuno dei tre compiti in cui ciascuno dei 2.987 candidati si è prodotto, determinandone, di fatto, le sorti professionali e in qualche misura esistenziali.
Mi piacerebbe piangere miseria preventivamente, dicendo che finiranno col bocciare proprio me, elencando pedantemente i titoli (le lauree, le lezioni accademiche, l’iscrizione all’albo dei consulenti del lavoro) che renderebbero mortificante l’eventualità di non esser nemmeno ritenuto degno d’udienza presso la Corte giudicante l’orale. Mi piacerebbe, insomma, produrmi in un soliloquio totalmente autoreferenziale, ma è proprio la vista di quegli over 30 (in taluni casi anche over 35) con qualche capello bianco di troppo, che mi spinge ad affrontare il discorso in modo meno autoreferenziale, più profondo e analitico, più sociale.
Un lavoro subordinato mascherato
Si parla, in ogni caso, di persone, ipotizzo di variegate provenienze socio-economiche, che hanno (chi più, chi meno brillantemente) superato il quinquennio a ciclo unico di Giurisprudenza, e poi superato la (per chi più, per chi meno vessatoria) fase del praticantato, connotata da una sperequazione tra tempo impiegato e retribuzione percepita che, mediamente, non si vedeva dai tempi di Oliver Twist.
Tutti i suddetti personaggi, ormai non più giovani (quindi appena più grandi di me, che faccio parte della categoria degli ancora giovani), ed escludendo coloro che ormai hanno rinunciato loro malgrado all’impresa e si sono riciclati in altri settori (tipicamente assicurazioni o risorse umane) e vengono solo “per tentare”, trascorrono un periodo di durata indeterminata, nel quale non sono legittimati ad apporre la firma recante il loro nome in calce agli atti che redigono, sicché, nei fatti, restano come collaboratori a partita Iva presso uno studio (talvolta quello in cui hanno svolto la pratica, talvolta in un altro) svolgendo quella che di fatto è un’attività che si potrebbe definire di lavoro subordinato mascherato, almeno per quel che riguarda i doveri (chiedete loro come la prenderebbe il dominus se si presentassero con qualche minuto di ritardo al mattino, in barba a tutte le distinzioni care alla giurisprudenza e alla dottrina sui cosiddetti “indici di subordinazione” e sull’autonomia dei lavoratori con partita Iva), ma che, a differenza del lavoro subordinato strictu sensu, non prevede né il diritto a un orario di lavoro fisso, né la copertura per malattia, e men che meno la maturazione delle mensilità aggiuntive e del Tfr, rendendo di fatto la posizione giuridica del “quasi avvocato” soccombente, da un punto di vista economico, a quella di un qualunque lavoratore subordinato (impiegato o operaio che sia), anche inquadrato all’ultimo livello del Ccnl di appartenenza, e senza che abbia compiuto tutto l’iter di studi e di sacrifici che invariabilmente chi si trova nella sopra descritta bolgia dantesca ha affrontato.
Strategie a supporto dei giovani professionisti
In queste poche righe ho tentato di evidenziare il problema, la distorsione sociale di un sistema così congegnato, che per la sua stessa sopravvivenza (evitare la già peraltro imperante inflazione di avvocati) è costretto a contingentare la selezione dei propri aderenti. Ma, come i filosofi rinascimentali, congiuntamente alla cosiddetta “pars destruens” vorrei affiancare una “pars construens”, proponendo delle plausibili soluzioni che rendano più socialmente accettabile la posizione dei non-avvocati, senza voler sfociare nell’estremo di voler superare il sistema ordinistico delle professioni, che esiste dalla notte dei tempi (non che questo di per sé lo renda giusto, ma senza voler scomodare le corporazioni medievali – o le gilde, come le definirebbe qualche appassionato nerd – è indubbio che conferisce, se ben attuato, un diverso prestigio e una maggiore credibilità a coloro che esercitano la professione aderendo a questo sistema) e che sicuramente comporta dei vantaggi.
Un buon inizio potrebbe consistere nella strategia rimediale preventiva di rendere Giurisprudenza una facoltà a numero chiuso, scongiurando la possibilità di rimanere in mezzo al guado a un’età in cui è più complesso reinventarsi o rinnegare quanto fatto nei precedenti dieci anni (come si può non trovare assurdo che in Italia ci sia sovrabbondanza di avvocati e che Giurisprudenza sia senza numero chiuso, e carenza di medici laddove la facoltà di Medicina è a numero chiuso?).
Urgono maggiori diritti per i praticanti avvocati
Poi si potrebbe prevedere, se non un Contratto Collettivo, quantomeno un accordo vincolante che dia dei diritti ai praticanti avvocati che hanno concluso la pratica che li renda, se non altro in termini retributivi e di diritti, equiparati a un qualunque lavoratore del settore impiegatizio, anche solo di apprendistato (non mi sembra una follia, tenendo conto che si parla di soggetti che hanno pur sempre concluso un ciclo di studio magistrale, tutto sommato papabili di godere di un trattamento, se non superiore, quantomeno similare a quello di un’apprendista estetista).
Infine si potrebbe, per rendere più a misura d’uomo il ciclopico carrozzone dell’esame di stato, indire più sessioni (se necessario anche a pagamento) in modo da rendere più vivibile l’esame in sé, e più agevole il compito di coloro che dovranno correggerlo: la vista degli over 35 continua a rattristarmi, le loro cassandre continuano a spaventarmi, ma mi ostino a pensare che non abbiano ragione e che, in effetti, i compiti vengano corretti davvero.
* Luigi Beccaria è partner di Studio Elit, collabora con l’Università degli Studi di Milano
e con l’Università Cattolica del Sacro Cuore.