Smart working: soluzione vantaggiosa o inadeguata?

In occasione del Festival del Lavoro, organizzato dal Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro e dalla sua Fondazione Studi il 28 e 29 aprile, è stato presentato il Rapporto “Gli italiani e il lavoro dopo la grande emergenza”. Al suo interno, un capitolo dedicato allo Smart Working

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Lo smart working divide gli italiani, condizionati dalle modalità con cui è stata vissuta l’esperienza e, soprattutto, dal contesto familiare e domestico in cui si è svolta (7,3 milioni ad aprile 2021).

Il bilancio è positivo sul fronte dell’aumentata possibilità di conciliare i tempi di vita e di lavoro ma, insieme, emergono criticità che possono avere effetti anche sul clima aziendale e sulle relazioni di lavoro, fino ad arrivare alla disaffezione. È quanto emerge dal capitolo Smart working, una rivoluzione nel lavoro degli italiani, contenuto nel Rapporto Gli italiani e il lavoro dopo la grande emergenza presentato in occasione del Festival del Lavoro, organizzato dal Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro e dalla sua Fondazione Studi il 28 e 29 aprile 2021.

Pro o contro? La doppia visione del lavoro agile

Il 16,7% dei lavoratori intervistati guarda allo smart working come un punto di non ritorno della propria vita professionale; oltre il 10,7% cercherebbe un qualsiasi altro lavoro pur di svolgerlo da casa. Il 43,5% si adatterebbe al ritorno in ufficio, ma 4 su 10 sarebbero contenti di tornare a lavorare tutti i giorni in presenza. L’esperienza dell’ultimo anno è stata, infatti, vissuta in modo molto diverso da giovani e adulti, da lavoratori con figli e senza. In termini relazionali e di carriera gli uomini sembrano aver patito maggiormente il lavoro da casa (52,4% contro 45,7% delle donne), guadagnando però in produttività e concentrazione. Viceversa, le donne hanno sofferto l’allungamento dei tempi di lavoro (57% contro il 50,5% degli uomini) e l’inadeguatezza degli spazi casalinghi (42,1% contro 37,9%), evidenziando un maggior rischio di disaffezione verso il lavoro (44,3% rispetto al 37% dei colleghi).

Ma se lo smart working ha permesso 6 volte su 10 di conciliare meglio professione e vita privata, non è stato così per chi aveva maggiori carichi familiari. In primis le coppie, il cui work-life balance è peggiorato per il 43% del campione. Ma l’home working ha avuto anche ricadute pratiche, in termini di spesa e disturbi fisici legati a postazioni domestiche inadeguate. Il 71,1% dichiara di aver diminuito le spese per spostamenti, vitto e vestiario, investendo in consumi legati al tempo libero nel 54,7% dei casi, ma il 48,3% paga il conto per l’utilizzo di sedie e scrivanie improvvisate e il 39,6% lamenta l’inadeguatezza degli spazi e delle infrastrutture, come i collegamenti di rete.

L’indagine, in sostanza, conferma, da una parte, un maggiore ricorso al lavoro agile tra i lavoratori più qualificati e le grandi aziende (terziario, servizi alle imprese, credito e assicurazioni) e, dall’altra, una resistenza legata ad una cultura organizzativa del lavoro orientata ancora su modelli tradizionali. Al centro i lavoratori sotto i 35 anni, per i quali non si può più tornare indietro. «La varietà delle casistiche riportate all’interno del Rapporto – afferma Rosario De Luca, Presidente della Fondazione Studi Consulenti del Lavoro – evidenzia la necessità di ripensare alla regolazione del lavoro subordinato, auspicabilmente lasciando alla contrattazione collettiva il compito di rintracciare le migliori soluzioni per contemperare le richieste di imprese e lavoratori. Sarà interessante il confronto su questo tema con il mondo della politica, delle imprese e delle parti sociali».


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