Legge di Bilancio 2021: qualche necessario commento

L’impalcatura della Legge di Bilancio porta con sé gli atavici difetti della legislazione italiana e in particolare dell’ultimo anno, ossia la propensione verso l’assistenzialismo a scapito dell’incentivazione dell’occupazione.

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legge di bilancio 2021

di Luigi Beccaria* |

La dottrina giuridica già da anni ha evidenziato come, a fronte di una certa staticità del diritto contrattuale “classico”, tutte le categorie contrattuali che prevedono uno squilibrio di fondo tra le possibilità economiche, ma anche le conoscenze delle parti (il caso più evidente è, naturalmente, quello del contratto di lavoro; ma anche la disciplina contrattuale in ambito consumeristico e bancario, perseguendo la medesima ratio legis di fondo, sono state oggetto di una certa fibrillazione), sono continuamente sottoposte a revisioni e ribilanciamenti, tutti finalizzati a riequilibrare il suddetto gap, informativo ed economico, sussistente tra le parti.

I “micro provvedimenti”

L’esigenza di adeguare le normative, anche in modo vorticoso, nella direzione di una maggiore equità è naturalmente stata esacerbata dalla imprevedibile pandemia diffusasi nel nostro Paese a partire da febbraio 2020; a livello metodologico, è interessante notare come il legislatore, sin da subito (com’era del resto comprensibile, non essendo in alcun modo prevedibile la verosimile traiettoria che l’andamento epidemiologico avrebbe subìto) ha optato per una serie continua di “micro provvedimenti”, intendendo il prefisso “micro” non tanto in un’ottica quantitativa rispetto alle risorse mobilitate, che rispetto agli standard ordinari sono del resto state inevitabilmente imponenti; direi che si tratta di “micro provvedimenti” dal punto di vista della circoscrizione dell’orizzonte temporale, considerato che le varie normative in tema di Smart Working (per i lavoratori adibiti a mansioni compatibili con tale peculiare modalità di svolgimento della prestazione di lavoro) e cassa integrazione hanno sempre interessato periodi ben definiti di tempo, in tali casi anche molto ridotti (si pensi alle proroghe degli ammortizzatori susseguenti al Decreto Legge “Cura Italia”, relative a periodi prima di cinque settimane e successivamente di quattro: praticamente un lasso di tempo a stento sufficiente a prendere cognizione dell’emanazione della nuova normativa, ad attendere le circolari esplicative finalizzate, almeno teoricamente, a diradare i dubbi interpretativi dati dalla scrittura frettolosa e spesso lacunosa delle norme, e infine, da operatori, a provvedere alla disomogenea e imponente selva di adempimenti prescritti), continuando poi sulla linea dei continui “ritocchi”, aggiustamenti e proroghe di quanto stabilito, senza in alcun modo provvedere a riforme strutturali o caratterizzate da un orizzonte (non solo temporale, ma anche a livello di visione) più ampio.

La necessità di unico ammortizzatore

Ciò premesso, possiamo iniziare la nostra analisi affermando sin da subito, e senza timore di smentita, che anche l’appena emanata legge di bilancio 2021 (l. 178/2020) ricalca fedelmente questo schema, guardandosi bene dall’affrontare temi ad ampio respiro, e limitandosi a prorogare i vari rivoli già impostati nel precedente anno in risposta alla situazione emergenziale presentatasi, non recependo in alcun modo le proposte avanzate dai tecnici (nella fattispecie i Consulenti del Lavoro), contenenti la ragionevole previsione di un ammortizzatore sociale unico, la cui importanza del resto era sin da subito emersa, considerando che le varie tipologie di ammortizzatori sociali previste dalla normativa del 2020 (da cui gli acronimi scioglilingua Cigo – Cigs – Cisoa – Cigd – Fis – Fsba) di fatto sfociano in un unico e omogeneo trattamento economico, che a livello di “marketing” politico viene efficacemente sintetizzato nel cosiddetto “80% della retribuzione”, sebbene la prassi sia poi spietata nello smentire tale slogan, atteso che i massimali dei trattamenti di integrazione salariale sono ben più punitivi rispetto a quanto pubblicizzato e sono suscettibili, secondo le indagini condotte, di portare a una riduzione del netto in busta paga medio di circa 600 euro al mese.

Una sanatoria per le casse integrazioni

In generale, l’intera impalcatura della legge di bilancio porta con sé gli atavici difetti della legislazione italiana degli ultimi anni e in particolare dell’ultimo anno, ossia la propensione verso l’assistenzialismo a scapito dell’incentivazione dell’occupazione (tant’è che la disoccupazione giovanile ha raggiunto, al momento della redazione del presente contributo, secondo il Corriere della Sera, l’abnorme cifra del 29%), la scarsità degli interventi in tema di riduzione del cuneo fiscale, la presenza di bonus a pioggia finalizzati a compiacere ora questa, ora quella fascia di popolazione. Tuttavia, tra le pieghe normative, risulta, allo stato attuale, una proposta di emendamento al Decreto Legge cosiddetto “Milleproroghe”, che stupisce per equità e intelligenza: è infatti al vaglio la possibilità di una sanatoria per le casse integrazioni non tempestivamente processate nell’anno 2020.

È infatti opportuno ricordare che, nella legislazione attuale, trascorsi i 30 giorni dal provvedimento autorizzativo dell’ammortizzatore sociale senza che siano stati effettuati i vari adempimenti prescritti (l’esempio più evidente è la predisposizione dei modelli SR41, attraverso i quali l’Inps predispone il bonifico ai lavoratori interessati), l’azienda, di qualsiasi dimensione sia, qualsiasi volume occupazionale abbia, decade dalla possibilità di fruire dell’ammortizzatore stesso, con conseguente obbligo per il datore di lavoro (possibilmente chiuso per factum principiis) di pagare non solo le retribuzioni ai dipendenti che non hanno potuto prestare la loro attività, ma an-che la relativa contribuzione.

Naturalmente le cause della mancata effettuazione degli adempimenti nei termini possono essere le più disparate: si va dall’ipotesi, peraltro esposta ripetutamente dai Consulenti del Lavoro, di malattia dell’intermediario abilitato che gli ha reso impossibile l’azione negli stretti termini concessi, sino alla mancata trasmissione da parte dell’istituto stesso del provvedimento di autorizzazione, il che costringe il datore di lavoro o il suo intermediario (che a sua volta deve vigilare su decine o centinaia di aziende, ognuna con date di decorrenza e secondo procedure differenti) a controllare compulsivamente la relativa pagina dell’eventuale autorizzazione sul sito – ça va sans dire spesso malfunzionante – dell’Inps; esperienza personale vuole che in casistiche simili l’istituto si è limitato ad opporre, davanti alla richiesta di reimmissione in termini, i messaggi già pubblicati dall’Istituto stesso indicanti le procedure per pagare all’Inps stesso le somme dovute (!).

Verso un rapporto di collaborazione

Una modifica del genere andrebbe in direzione di porre il rapporto tra pubblica amministrazione e privati (non solo imprese, ma anche lavoratori, di fatto beneficiari delle prestazioni erogate dall’ente e che le aziende sono in situazione di impossibilità oggettiva di pagare) in termini di collaborazione e buona fede: se davvero ci si riuscisse, saremmo davanti a una rivoluzione strutturale nel nostro ordinamento, della cui assenza ci siamo lamentati sino ad ora.


* Luigi Beccaria è avvocato ed è partner di Studio Elit. Collabora con l’Università degli Studi di Milano e con l’Università Cattolica del Sacro Cuore.

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